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Non c’è futuro senza storia: l’indagine Gilda – SWG

aula generica esami maturità 2019

Utile, interessante e importante: nonostante il ruolo sempre più marginale in cui si trova relegata, è così che la Storia viene considerata dai docenti e dagli studenti italiani. È quanto emerge dall´indaginesull’insegnamento della Storia, realizzata dalla Swg per la Gilda degli Insegnanti e presentata oggi nell’ambito del convegno nazionale “Quale futuro senza la storia?promosso per la Giornata Mondiale dell´Insegnante.”

La ricerca è stata condotta su due distinti campioni composti da 300 insegnanti di tutti i gradi di istruzione e 100 studenti delle scuole secondarie di secondo grado, intervistati online e face-to-face.

L’utilità della Storia
Per il 64% degli insegnanti, la Storia è utile ad acquisire gli strumenti per interpretare meglio il presente, per il 18% a non ripetere gli errori del passato e per il 16% ad ampliare lo sguardo verso il futuro e a prevederlo meglio.
Sul fronte degli studenti, invece, il 38% ritiene che la Storia serva a non ripetere gli errori del passato mentre per il 30% è utile a interpretare meglio il presente e per il 29% ad ampliare lo sguardo sul futuro e a prevederlo meglio.  

La Storia a scuola
Per il 55% dei docenti lo scopo dell’insegnamento della Storia a scuola è formare le nuove generazioni mentre per il 42% consiste nell’educare i giovani alla cittadinanza.

Imparare le date a memoria
Sull’importanza di imparare le date a memoria nello studio della Storia, la grande maggioranza dei docenti intervistati, pari all’87%, ritiene che sia utile per collocare gli eventi nel tempo e nel contesto sociale. Per il rimanente campione è indispensabile (5%) e non serve (8%).
La questione vista dagli studenti: conoscere a memoria le date degli eventi storici è utile per collocarli nel tempo e nel contesto sociale secondo il 63%, è indispensabile per il 17% e il 20% lo considera inutile.

L’opportunità della Storia locale
I docenti che giudicano opportuna l’introduzione nei programmi scolastici dell’insegnamento della Storia locale rappresentano l’89%, di cui l’85% ritiene che deve essere comunque collocata nel contesto della Storia nazionale e mondiale e il 4% secondo cui, invece, deve avere un ruolo preponderante. Lo schieramento del “no” costituisce l’11%: “perché distoglie dallo studio dei contesti nazionali ed internazionali” secondo il 5% e “perché le ore sono insufficienti” per il 6%.
A dichiararsi favorevoli all’introduzione della Storia locale è l’80% degli studenti: per il 63% la risposta è “sì, ma collocandola nel contesto della Storia nazionale e mondiale”, mentre il 17% ritiene che debba rivestire un ruolo preponderante. Il 20% secondo cui, invece, non è opportuno introdurre la Storia locale si compone di un 14% per il quale distoglie dallo studio dei contesti nazionali e internazionali e di un 6% che motiva la propria contrarietà con l’insufficienza delle ore a disposizione.

Bastano 2 ore la settimana?
Uno scarto di 7 punti percentuali separa il 52% dei docenti secondo i quali per imparare la Storia servono più delle due ore settimanali previste attualmente dai programmi scolastici dal 45% di quelli che ritengono siano sufficienti.
Tra gli studenti prevale l’opinione per cui due ore di Storia a settimana sono sufficienti: 58%; per il 31% ne servono di più, l’8% sostiene che sono troppe e che basterebbe una sola ora e il residuale 3% è del parere che bisognerebbe abolire del tutto la materia.

La trasversalità della disciplina
Secondo l’88% degli insegnanti lo studio della Storia è trasversale alle altre discipline scolastiche e a pensarla così sono per il 92% i docenti con oltre 20 anni di anzianità. Il 12% del campione intervistato, invece, ritiene che la dimensione storica non sia comune a tutte le discipline.
Per quanto riguarda gli studenti, il 71% considera lo studio della Storia trasversale alle altre materie (88% nel Nord Italia e 80% tra chi ha voti alti in Storia) contro il 29% secondo cui la dimensione storica non è comune a tutte le discipline (50% nel Mezzogiorno e 47% tra chi nutre uno scarso interesse per la materia).

“L’esito del sondaggio  commenta Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli Insegnanti – è molto confortante perché esprime a chiare lettere l’apprezzamento non solo dei docenti, ma anche degli studenti, verso la disciplina. Un dato che va in direzione diametralmente opposta rispetto a quella della politica, che ha ridotto e marginalizzato l’insegnamento della Storia”

(fonte: Ufficio stampa Gilda)

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Italia, corpo insegnanti sempre più “vecchio”: in media ha più di 51 anni

insegnanti docenti immissione in graduatoria

La categoria degli insegnanti continua ad invecchiare: in media hanno 51 anni e due mesi. Dopo il computo della Ragioneria dello Stato, che attraverso il Conto annuale ha confermato come gli insegnanti italiani siano quelli con l’età più avanzata in Europa, la stima stavolta è stata realizzata da Tuttoscuola, su dati ufficiali Miur, che è andata a mettere a confronto la situazione anagrafica dell’anno scolastico 2015-16 con quella di due anni dopo, il 2017-18: la rivista ha scoperto chel’età media dei docenti di ruolo di tutti gli ordini di scuola, compresi gli insegnanti di sostegno, (complessivamente erano 733.654 docenti nel 2015-16) era allora di 50 anni e 8 mesi. Due anni dopo, quando il numero di docenti di ruolo era salito a 737.243 unità, sebbene nel frattempo fosse stato realizzato il piano straordinario della Buona Scuola, l’età media degli insegnanti si è attestata a 51 anni e 2 mesi, compresi i docenti di sostegno. 

Questo significa che “gliinsegnanti di scuola primaria restano mediamente i più giovani, anche se poi anche loro hanno registrato un aumento dell’età media di circa 7 mesi, passando dai 49 anni e 6 mesi del 2015-16 a 50 anni e un mese di due anni dopo. Forse il turn over di quest’anno, arricchito dalle uscite di quota 100, potrebbe favorire una inversione di tendenza, ma indubbiamente ci vorranno molti anni per abbassare l’età media dei nostri insegnanti di ruolo avvicinandola a quella della maggior parte dei Paesi europei”. 

Il dubbio, tuttavia rimane, perché ammesso che si riesca a realizzare il turnover anche su quota 100, poiché i controlli dell’Inps sulle domande dei circa 14 mila docenti potrebbero essere svolti in tempi successivi alla formazione degli organici del personale scolastico, la maggior parte dei nuovi che subentreranno avranno una media anagrafica tutt’altro che bassa. Sempre Tuttoscuola ha fatto emergere che “per i supplenti che nel 2015-16 erano poco più di 100 mila e due anni dopo superavano le 135 mila unità, nell’arco di un biennio la loro età media complessiva si è innalzata di oltre un anno, passando da 39 anni e 3 mesi del 2015-16 a 40 anni e 4 mesi nel 2017-18”. 

Tra i diversi ordini di scuola la graduatoria dei più anziani vede in testa i supplenti della scuola dell’infanzia seguiti da quelli della primaria. Nell’uno e nell’altro caso si registra anche il più consistente aumento dell’età media nell’arco del biennio considerato: 43 anni e 7 mesi (era di 41 anni e 1 mese) per i docenti dell’infanzia, 41 anni e 2 mesi (era di 38 anni e 8 mesi) per quelli della primaria. 

Secondo Anief non è un caso se i docenti precari del primo ciclo scolastico sono quelli più avanti negli anni: stanno invecchiando da supplenti, in attesa che la giustizia si esprima sulle loro ragioni. E anche se queste sono da vendere, nell’ultimo periodo abbiamo assistito anche ad autorevoli pareri dei giudici negativi, come quelli del Consiglio di Stato su maestri con diploma magistrale. I quali ora sperano vivamente nei  pareri, sull’abuso delle supplenze anche in presenza di posti liberi, da parte della Corte di Cassazione, già riunita il 12 marzo scorso, della Corte Costituzionale, sulla legittimità del concorso straordinario della scuola secondaria, che avrà inevitabili ripercussioni sul primo ciclo e anche del Consiglio d’Europa

“La presenza in Italia di un corpo docente anziano – commenta Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief – è risaputa. Non si comprende, se non per meri motivi di finanza pubblica, il motivo per cui il Governo precedente e anche l’attuale non abbiano compreso i dipendenti scolastici tra le categorie professionali ad alto pericolo di salute, per via dello stress derivante dalla presenza di tanti alunni in contemporanea, e quindi da includere nell’Ape social. Anche l’accesso a quota 100 sarebbe stata utile per ringiovanire la categoria, ma senza prevedere decurtazioni dell’assegno di quiescenza e anticipando ulteriormente gli anni utili per lasciare e il numero di contributi da accumulare”. 

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“Missione” insegnanti, viaggio nel napoletano – Centro Storico

spaccanapoli napoli centro storico insegnanti

Napoli è una delle città più complesse dove crescere. Lo dicono i rapporti, l’escalation della fenomenologia delle baby-gang, gli incontri e i piani straordinari che si sono susseguiti negli anni, lo dicono anche i risultati Invalsi che vedono la città partenopea come fanalino di coda dell’intera Nazione. 

Cosa vuol dire essere insegnante a Napoli e in provincia? Abbiamo deciso di metterci in macchina con Corrado Matacena, imprenditore dell’omonimo gruppo di promozioni editoriali, nei suoi giri per la città a visitare scuole e distribuire libri. 

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Il campanile del monastero di Santa Chiara, nel centro storico di Napoli (foto: Enrico Parolisi - Instagram)
Il campanile del monastero di Santa Chiara, nel centro storico di Napoli (foto: Enrico Parolisi – Instagram)

Consegnare libri al centro di Napoli per chi fa promozione editoriale è un’impresa. Arroccati in splendidi edifici nel cuore della zona a traffico limitato, o con ingressi in stretti vicoli che ricordano la Napoli raccontata di Matilde Serao, dove piccoli portoncini aprono gli occhi a immensi giardini o straordinari esempi di architettura. Studiare al centro di Napoli è un privilegio per gli studenti: si calpestano anni di storia e si respirano i fumi di una città dalla cultura millenaria, che oltre ogni suo atavico problema tiene ancora impregnato nelle pietre di tufo lo splendore che fu.

Paolo Barbuto, prima firma del Mattino che qui affonda le radici della sua storia, scriveva in un articolo del 2015 “le scuole di frontiera non stanno solo in periferia ma anche in pieno centro città”. E ha ragione da vendere: quelli che erano i palazzi nobili del “ventre” di Napoli svettano a ridosso dei quartieri popolari, un meltin’ pot tutto partenopeo che per anni ha visto mescolarsi i ceti sociali. Al centro studiano parimenti i figli di stimati professionisti e quei ragazzi che la scuola ha il dovere di strappare dalla longa manus della malavita organizzata. Non c’è differenza di ceto sociale, così come di colore, razza e religione. Napoli è un esempio di integrazione funzionale che parte proprio in tenera età, grazie al lavoro di insegnanti capaci e coraggiosi.

E riprendiamo sempre queste parole di Paolo Barbuto.

[…] abbiamo scoperto che in ognuno di questi luoghi esiste un manipolo di persone incapaci di arrendersi: professori, presidi, bidelli (ci scuserete se non utilizziamo il burocratese che ha attribuito altri nomi a queste categorie) che sono piccoli eroi quotidiani, capaci di affrontare questioni difficili in classe e genitori guappi fuori delle classi; pronti a spiegare l’onestà a ragazzi che hanno mamme e papà in galera, a portare la legalità nelle strade e nelle case che circondano la scuola; uomini e donne disposti a diventare artigiani per dipingere un muro o sistemare il parquet per far ballare le bambine. E ti capita sempre, invariabilmente, che alla fine della chiacchierata lunga e intensa, tu li scruti negli occhi e gli chiedi: «Scusate, ma voi che mestiere fate? Mica siete semplici professori…», e loro si guardano imbarazzati senza sapere cosa dire. Perché, per loro, fare certe cose speciali, eroiche, è normale.

Leggiamo queste parole e ci tornano a mente i volti di docenti come quelli dell’Istituto Comprensivo Statale Confalonieri, del 34esimo circolo Ristori, o della Foscolo – Oberdan. Non semplici insegnanti, ma factotum che sono chiamati a un compito ben più ampio di quello per cui vengono retribuiti, più di una volta costretti a sopperire alle carenze dello Stato che in alcuni vicoli sembra non arrivarci più.

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Urlare a scuola? Meglio di no

urla alunni

Una delle ultime conferme autorevoli e degne di nota in ordine di tempo arriva da Pittsburgh: i ricercatori dell’università qualche anno fa avevano portato a termine uno studio in diversi istituti equiparabili alle nostre scuole medie giungendo alla conclusione che urlare a un bambino equivale a sculacciarlo. Non solo, ma sgridare un allievo genera nello stesso insicurezza e rancore, al punto da poterne minare la crescita e subirne le ripercussioni anche da grande.

Sappiamo bene che non è sempre facile mantenere la calma, soprattutto in situazioni limite. Sappiamo bene anche che queste ricerche vanno prese per quello che sono, ma è sicuramente auspicabile trovare soluzioni alternative all’urlo, che a volte sembra l’unica strada percorribile.

Le ricerche e le convinzioni

Non è l’unico studio che analizza il fenomeno, quello dell’Università di Pittsburgh: alcuni anche più recenti hanno dimostrato a vario titolo la connessione tra l’aggressività verbale degli adulti e la crescita degli adolescenti, arrivando a sviluppare teorie finanche sulla crescita del bambino stesso.

Su MumAdvisor, in un’intervista realizzata da Benedetta Sangirardi alla vicepresidente di Alice Onlus Valentina Tollardo, si legge:

Le urla creano nel bimbo una situazione di allarme e di stress e, se fatte in ambienti pubblici, anche di umiliazione. Molti studi, tra cui quelli pubblicati sulla rivista “Child Development” dai ricercatori della Rochester University, hanno evidenziato una correlazione tra il cortisolo (detto anche ormone dello stress) e le difficoltà nello sviluppo intellettivo ed emotivo. Non dimentichiamo poi il valore educativo: la prima relazione significativa che i bambini instaurano è quella con i genitori, da cui imitano modalità ed atteggiamenti. I bimbi potrebbero in questo modo apprendere “l’urlo” come unica modalità possibile per esprimere la rabbia.

“Urlare non serve a nulla”

Non urlare non vuol dire non imporsi. Sebbene urlare non serva a nulla. Lo teorizza bene Daniele Novara, pedagogista italiano molto noto e tra i massimi esperti della gestione dei conflitti interpersonali. Nel suo “Urlare non serve a nulla” (lo trovate a questo link) Novara raccoglie tante riflessioni – frutto della sua esperienza lavorativa – e suggerisce alcune indicazioni pratiche per imparare a controllare le proprie reazioni emotive e riuscire, con la giusta organizzazione, a farsi ascoltare efficacemente e gestire nel modo migliore i conflitti che quotidianamente si generano con i figli. Una lettura consigliata anche per gli insegnanti.