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Regionalizzazione, il governatore lombardo Fontana: la Consulta ci ha dato ragione. Pacifico: studi

Sull’autonomia differenziata la Lega ha scommesso tantissimo. Trascurando anche il fatto che i suoi ministri, per rispettare il ruolo che ricoprono e il giuramento fatto davanti al Capo dello Stato, a difesa di tutti gli italiani, non possono uscire più di tanto allo scoperto. Costretto a mettere in atto una sottile operazione di diplomazia, anche il ministro dell’Istruzione sta operando in questa direzione: nelle ultime ore, infatti, ha affermato che graduatorie e scuola non saranno regionalizzate, cercando in questo modo di spegnere gli animi dei tanti elettori degli attuali partiti di governo, giustamente indignati per la veemenza con cui i rappresentanti del Carroccio stanno cercando di imporre la regionalizzazione a Palazzo Chigi, con l’intenzione di bissare il comportamento anche alle Camere, qualora il disegno di legge fosse approvato dal governo.

LE AFFERMAZIONI DEL PRESIDENTE DELLA LOMBARDIA

Le affermazioni di circostanza di Marco Bussetti hanno però lasciato scontento il governatore della Lombardia: intervenuto subito dopo il ministro, ha scritto Orizzonte Scuola, secondo il presidente della regione Bussetti si è dimostrato “ancora meno realista del re”, ha detto il governatore, citando una sentenza della Corte Costituzionale, la 13 del 2004, la quale afferma che “il compito di organizzare la scuola può essere demandato alle Regioni, così come succede per la sanità”. Quindi, “le graduatorie regionali le facciamo lo stesso” ha detto ancora Fontana. “È un falso problema, in consiglio regionale sia il PD che i 5 Stelle hanno votato per l’autonomia, mi sembrano tutti un po’ confusi”. Poi ha concluso “è come per la sanità, spero lo capiscano o invocherò la sentenza, che vale per tutte le Regioni”.

LA POSIZIONE DELL’ANIEF

Secondo Anief in confusione è invece chi ha chiesto di trasformare la scuola pubblica italiana in un servizio da gestire a livello locale. E se i Comuni riescono a farlo ben venga. In caso contrario, certe regioni si arrangino pure. Perché nelle intenzioni di Lombardia e Veneto, spetta alle regioni prendere una serie di decisioni, accollandosi anche gli oneri finanziari e organizzativi: bandire concorsi e trasformare i docenti in impiegati regionali; aumentare i fondi per le scuole con risorse regionali; diminuire il numero di alunni per classe; regionalizzare gli USR; integrare gli stipendi dei docenti regionali con fondi della Regione, gestire anche la mobilità dei docenti, con la possibilità di aumentare gli anni di permanenza a più di 5 dopo l’assunzione in Regione.

LA CONSULTA HA DETTO ‘NO’ PIÙ VOLTE

Proposta di legge che, secondo alcune indiscrezioni, oltre a destare molte perplessità in diversi parlamentari, ha visto in questi giorni non a caso una diminuzione da 16 a 4 punti di gestione dell’autonomia scolastica. E chi lo ha fatto, a differenza del governatore della Lombardia, ha avuto i suoi motivi. Probabilmente, a differenza del governatore Fontana, ha letto a fondo i tentativi passati andati tutti sistematicamente a vuoto sulle proposte di regionalizzazione in Trentino, peraltro dopo le sentenze della Consulta n. 107/2018 (sulla L. Regione Veneto) e la n. 6/2017 e 242/2011 sulla Legge Trento 5/2006, anch’esse tutte negative.

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Test Invalsi: dramma Sud

test invalsi esame

Secondo l’Invalsi, i dati di quest’anno non lasciano spazi a dubbi: all’ultimo anno delle superiori, l’insufficienza grave nelle prove di italiano è quasi fisiologica al di sotto del 10 per cento e quelle del Sud dove sfiora il 20 per cento in Puglia e Molise e supera il 25 in Calabria. Ne consegue che in Italiano gli alunni che hanno i punteggi più alti sono collocati tra il 15 e il 20 per cento nelle regioni settentrionali e sotto il 10 per cento nel Meridione. Sempre alle superiori, per quanto riguarda la matematica, in Calabria, Campania e Sicilia il 60 per cento dei ragazzi non ha raggiunto le competenze minime richieste dai programmi. Al contrario di regioni come la Lombardia, il Veneto, l’Emilia Romagna e il Friuli Venezia Giulia, dove il 75 per cento ha raggiunto gli obiettivi prefissati. Ed è un problema che già si evidenzia, seppure con livelli meno marcati, già dalla quinta primaria.

Anche i test riempiti dai maturandi, per la prima volta, hanno evidenziato le risultanze prodotte dagli studenti di terza media: soltanto due studenti su tre posseggono, al termine del ciclo di studi e in procinto di svolgere gli esami di fine corso, le competenze di base richieste dai programmi. Si tratta del 65,6 % alla scuola media e il 65,4 % in quinta superiore per quanto riguarda l’italiano. Ancora peggio va per la matematica, spiega il Corriere della Sera: se in terza media tre ragazzi su 5 (61,33 per cento) hanno appreso in maniera sufficiente o di più il programma, alla fine delle scuole superiori sono solo il 58,3 per cento quelli che si possono considerare «promossi». Una situazione incredibile che diventa drammatica in Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna dove addirittura la situazione è rovesciata: il 60 per cento degli studenti non è sufficiente. Non va meglio per lo studio dell’inglese: per quanto riguarda la comprensione orale solo uno studente su tre riesce a raggiungere il livello richiesto.

Secondo Roberto Ricci direttore dell’Invalsi, “molto dipende dal contesto e dalla situazione socioeconomica familiare. In alcune aree l’impreparazione è tale che è come se un terzo degli studenti non avesse frequentato la scuola: alla fine delle superiori ha conoscenze e competenze della terza media”.

Anief ha affrontato questo tema più volte. Proponendo più soluzioni: organici maggiorati, naturalmente maggiori investimenti, ma anche l’anticipo dell’obbligo formativo, almeno a cinque anni di età, con contestuale obbligo formativo a 18 anni. Di recente, il sindacato ha anche messo in risalto i risultati delCountry Report sull’Italia elaborato dalla Commissione europea, dal quale è emerso che nonostante i recenti miglioramenti nella qualità dell’istruzione scolastica, le ampie e persistenti disparità regionali nei risultati dell’apprendimento continuano a destare grande preoccupazione.In quel report si evidenziava un aspetto di cui oggi ha parlato lo stesso Invalsi: “al Sud, le differenze significative nei risultati tra e all’interno delle scuole potrebbero indicare una tendenza a raggruppare gli studenti in base alla loro capacità”, magari creando pure delle classi ‘pollaio’.

“Se gli studi nazionali insistono su questa tendenza – commenta Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief – significa che si tratta di un dato su cui occorre soffermarsi. Perché se è vero che le scuole sono sempre più portate a realizzare le classi per livelli di competenze degli alunni, significa che gli istituti si sentono costretti a prendere delle contromisure all’inerzia di chi le governa: poiché non arrivano in quelle scuole delle risorse aggiuntive, non solo finanziarie, come ha fatto notare di recente la Corte dei Conti, ma anche umane; ovvero servono organici maggiorati e potenziamenti corposi, allora sono obbligati a crearsi degli ‘anticorpi’ interni. I quali, però, vanno paradossalmente a penalizzare gli alunni più deboli, i quali collocati in un contesto di basso livello, a livello territoriale e a volte pure familiare, non hanno quello stimolo positivo derivante dall’integrazione random con alunni dai tratti poliedrici e diversificati”.

“Laddove è presente un’alta percentuale di studenti in difficoltà, un numero superiore alla media di disabili e stranieri, occorrono invece misure straordinarie: anche perché è un dato inconfutabile che molti di questi allievi si disperdono senza arrivare nemmeno al diploma di maturità. Quindi il quadro è peggiore di quello che ha oggi evidenziato l’Invalsi. Stiamo producendo sempre più un sistema di formazione rivolto ad una minoranza, negando gli articoli 33 e 34 della Costituzione, che danno garanzia di istruzione a tutti i cittadini, senza alcuna distinzione”, conclude Pacifico.

(fonte: Ufficio Stampa Anief)

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Dossier Regionalizzazione, Anief: “Misure contrarie alla Costituzione”

marcello pacifico anief

Non tarda la replica di Anief alla resa pubblica del documento tecnico con cui il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel rivolgersi al Capo del Governo, assume una forte posizione contraria rispetto al progetto leghista, che attraverso l’approvazione di una serie di elementi incostituzionali porterebbe all’affossamento delle regioni del Sud. Secondo il giovane e combattivo sindacato fa bene il “Dipartimento per gli affari giuridici e amministrativi” ad asserire che con il riconoscimento di forme e condizioni di autonomia differenziata, si assiste a uno smantellamento del comma 3 dell’art. 117, considerato che esse possono transitare nella competenza delle Regioni. Di fatto si avrebbe nella realtà una complessa geometria delle competenze per ognuna delle regioni, cosiddette ordinarie, ridefinite sulla base di ulteriori attribuzioni. 

IL PARERE DEL PRESIDENTE

Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief, ricorda che “l’impatto del provvedimento su ambiti materiali rientranti nella competenza esclusiva dello Stato e potenzialmente suscettibili è portatore di disparità di trattamento tra regioni o difficoltà nella libera circolazione delle persone e delle cose tra i territori regionali o limitazioni dell’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale. Per tali ragioni, si è paventato in dottrina che l’affidamento ad alcune regioni di servizi a forte contenuto redistributivo (come l’istruzione e la sanità) potrebbe portare ad un indebolimento dei diritti di cittadinanza, nonché́ – conclude il sindacalista – a problemi relativi all’individuazione di criteri per l’assegnazione delle risorse”. 

Appare evidente come profili di illegittimità costituzionale si potrebbero riscontare in diversi punti: nella parte in cui si prevede una modifica della Costituzione con modalità non previste (le modifiche delle disposizioni costituzionali sono disciplinate dall’art. 139 Cost.); per alcune materie appare molto problematica un’attribuzione completa alle regioni in quanto necessitano di interventi unitari; la devoluzione delle materie di competenza esclusiva non può totalmente essere devoluta alle Regioni, in quanto lo Stato dovrebbe definire le prestazioni essenziali; l’attribuzione delle risorse finanziarie alle Regioni sia basata, nelle more della definizione dei fabbisogni standard per ogni singola materia, sulla spesa storica riferita alle funzioni trasferite e destinata a carattere permanente, a legislazione vigente, dallo Stato alla Regione interessata. 

Inoltre, continua, in considerazione delle difficoltà riscontrate nella definizione dei fabbisogni standard, gli schemi di intesa prevedono un meccanismo alternativo di determinazione delle risorse finanziarie per l’ipotesi in cui, trascorsi tre anni dall’entrata in vigore dei decreti attuativi, non siano stati ancora definiti i fabbisogni standard (articolo 5, comma 1, lett. b), degli schemi di intesa). La previsione di tale meccanismo alternativo non risulta, a dire del Dipartimento stesso, condivisibile. 

Infine, gli schemi di intesa non prevedono un termine di durata dell’intesa medesima: sarebbe opportuno la previsione di un termine di durata per evitare la definizione di processi irreversibili. E anche sulla clausola di cedevolezza delle disposizioni statali, c’è da dire che non possono essere le Regioni a stabilire quali norme statali cesseranno di essere applicate. 

“LA CONSULTA SI È GIÀ ESPRESSA”

A questo proposito, le due sentenze della Corte Costituzionale, la n. 107/2018 (sulla L. regione Veneto) e la n. 6/2017 e 242/2011 sulla Legge Trento 5/2006, risultano particolarmente utili, perché evidenziano da una parte i rischi di disposizioni incostituzionali, in un caso sulla materia dei servizi per l’infanzia (di competenza esclusiva delle regioni), e dall’altra il problema del reclutamento del personale. In entrambi i casi, la Corte interviene con la dichiarazione di incostituzionalità a riprova di quanto sia facile scrivere norme che sembrano utili e funzionali, ma irrispettose dei principi fondamentali della Carta costituzionale. 

Anief si è da sempre espressa contro questo modello di gestione dei servizi pubblici, a cominciare dalla scuola, partecipando anche, a fine giugno, alla manifestazione “No alla regionalizzazione scolastica, per difendere la Scuola di Stato“, assieme ad altri sindacati, associazioni e comitati di settore. Anche se molto vago, lo scorso 24 aprile proprio il presidente del Consiglio ha preso un impegno per mantenere l’unità dell’istruzione pubblica: è bene che si ricominci da lì, mettendo subito da parte egoismi regionali che poggiano su leggi incostituzionali.

(fonte: Ufficio Stampa Anief)

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Regionalizzazione, a Palazzo Chigi c’è un documento che si oppone al progetto della Lega

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte (foto: wikicommons)

Diventa pubblico il documento tecnico con cui il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel rivolgersi al Capo del Governo, assume una forte posizione contraria rispetto al progetto leghista, che attraverso l’approvazione di una serie di elementi incostituzionali porterebbe all’affossamento delle regioni del Sud. Gli esperti di legislazione, inoltre, avvertono: bisogna “garantire il ruolo del Parlamento”.

Sul progetto di regionalizzazione della scuola, della sanità e di una serie di servizi pubblici, le ragioni della Lega si stanno sciogliendo come neve al sole: dopo quelle spiegate qualche giorno fa dall’on. Luigi Gallo, presidente della Commissione Cultura della Camera, il quale oggi, in un’intervista ad Orizzonte Scuola, ha detto che “l’autonomia si può realizzare in tanti modi”, ma di sicuro “il M5S non permetterà un progetto che aumenti le disuguaglianze sociali e territoriali”, ad esprimere forti dubbi sul testo fermo in Consiglio dei Ministri è ora anche il “Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri”, che ha fornito una lucida sintesi sui principali elementi di criticità, anche sotto il profilo della legittimità costituzionale. 

Con un documento indirizzato al premier Giuseppe Conte, reso pubblico in queste ore, gli esperti di leggi dello Stato hanno palesato il fondato rischio, in fase di approvazione dell’importante provvedimento di legge, di aggiramento del dibattito parlamentare da parte del Governo: per il Dipartimento, non basta l’accordo tra Stato e Regioni per dar via all’applicazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione. Gli schemi di intesa sulle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia nelle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna hanno necessità di un passaggio legislativo. 

“Nel delineare il relativo procedimento in sede di prima applicazione – si legge nel documento indirizzato al premier -, appare necessario garantire il ruolo del Parlamento, assicurando nelle diverse fasi procedurali un adeguato coinvolgimento dell’organo parlamentare, la cui funzione legislativa risulterebbe direttamente incisa dalle scelte operate nell’ambito delle intese”. Il pericolo è quindi che Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, promotrici del progetto, possano riuscire ad ottenere più finanziamenti a discapito delle altre regioni con già meno servizi e risorse. 

Il Dipartimento del CdM ricorda che la “modalità di determinazione delle risorse prevede, infatti, che la spesa destinata alla Regione per l’esercizio delle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia non possa essere inferiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale per l’esercizio delle stesse”. Poi esemplifica: “se una Regione virtuosa ha una spesa storica nella materia trasferita pari al 70 per cento di quella media nazionale, e se si ipotizza che la relativa popolazione è pari al 10 per cento di quella nazionale, l’attribuzione di risorse non secondo il criterio storico, ma in base alla media nazionale, farebbe salire quest’ultima del 3 per cento (perché si perderebbe un risparmio del 30 per cento riferito al 3 per cento della popolazione)”. La conclusione è che “risulta dunque agevole comprendere come un tal modo di procedere implicherebbe un ingiustificato spostamento di risorse verso le regioni ad autonomia differenziata, con conseguente deprivazione delle altre (doverosamente postulandosi l’invarianza di spesa complessiva)”. 

Le ragioni del “Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri” sono in linea con quelle espresse dall’Anief. Secondo il giovane sindacato, infatti, il vero punto dolente non è il principio dell’autonomia differenziata che è affermato a chiare lettere in Costituzione e che ha una sua logica e un suo perché di esistere nel disegno costituzionale, ma la capacità dell’attuale (e non solo) classe politica di attuarlo senza creare gravi ferite a uno Stato di diritto già abbastanza fragile quale quello italiano. Basti pensare alle critiche fortissime all’attuale assetto del titolo V, parte II della Costituzione, come delineato dalla legge cost. n.3/2001, ritenuto da più parti imperfetto e da modificare. 

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Regionalizzazione, i sindacati: “Scuola fuori da ogni regionalizzazione”

Siamo fermamente convinti che la scuola vada lasciata fuori da ogni ipotesi di autonomia differenziata, operazione a nostro avviso in contrasto per molti aspetti col dettato costituzionale ed estremamente pericolosa – dichiarano Francesco Sinopoli, Maddalena Gissi, Giuseppe Turi, Elvira Serafini e Rino Di Meglio – perché destinata ad accentuare squilibri e disuguaglianze già oggi presenti, situazioni che andrebbero affrontate e risolte proprio con un deciso investimento in istruzione e formazione. Il carattere unitario e nazionale del sistema scolastico è per questo una risorsa preziosa di cui il Paese non può essere privato”.

L’esame dei testi da parte del Consiglio dei Ministri, previsto per ieri, è stato rinviato, ma i sindacati scuola non abbassano la guardia, forti anche del vasto consenso espresso dalla categoria in numerose iniziative svolte in tutte le regioni italiane e dell’altissimo numero di adesioni alla raccolta di firme contro la regionalizzazione.

Le ragioni del no ai progetti di autonomia differenziata che contemplano anche una regionalizzazione delle competenze in materia di istruzione sono state ribadite il 26 giugno 2019 con un flash mob, organizzato dalle segreterie regionali del Lazio, davanti alla Camera dei Deputati dai maggiori sindacati del comparto istruzione e ricerca (FLC CGIL, CISL FSUR, UIL Scuola RUA, SNALS Confsal e GILDA Unams).

“Ricordiamo al Governo – affermano i segretari generali – che nell’intesa sottoscritta a Palazzo Chigi dal Presidente del Consiglio vi sono impegni espliciti e chiari in questo senso, laddove si riconosce il ruolo assegnato alla scuola per garantire identità e unità culturale del Paese, anche attraverso l’unitarietà dello stato giuridico del personale, il valore nazionale dei contratti, un sistema nazionale di reclutamento del personale e le regole per il governo delle scuole autonome”.

L’impegno dei sindacati prosegue, non solo in relazione al procedere dell’iter delle intese, sulle quali peraltro hanno chiesto ai Presidenti delle Camere di farsi garanti di un pieno coinvolgimento del Parlamento su questioni che non possono essere gestite in un rapporto esclusivo tra Governo e singole regioni: per contrastare quello che ritengono un disegno disgregatore dell’unità nazionale le organizzazioni sindacali non trascureranno alcuna iniziativa.

(fonte: Gilda degli Insegnanti)

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No all’autonomia differenziata, la scuola in piazza

La proposta del ministro leghista Erika Stefani, avallata dai Governatori del Nord e dal vice-premier Matteo Salvini, è ad un passo dal via libera del CdM, malgrado nella sezione Scuola del Contratto di Governo non vi sia traccia di questo folle progetto secessionista. I cittadini italiani hanno capito che l’autonomia differenziata spezzetterebbe l’istruzione, penalizzando gli istituti formativi collocati in aree particolari, ad iniziare da quelli del Sud: in tanti oggi si sono dati appuntamento davanti a Montecitorio, per partecipare alla manifestazione promossa da Anief, Cobas, Unicobas, Gilda e diverse associazioni. 

È pressoché unanime il no all’autonomia differenziata che la Lega si appresta a portare domani in Consiglio dei Ministri: tanti cittadini si sono presentati oggi davanti alla Camera, aderendo alla manifestazione “No alla regionalizzazione scolastica, per difendere la Scuola di Stato“, promossa da diversi sindacati di categoria e alla quale hanno aderito associazioni e comitati di settore, tra cui l’Accademia nazionale Docenti, Adida, Donne a scuola, Professione Insegnante, Civesscuola, Per la Scuola della Repubblica, Illuminitalia ed il Comitato Nazionale contro Mobbing-bossing scolastico (2007) Onlus.

“Se passa questo testo sciagurato – ha detto durante la manifestazione il professor Marcello Pacifico, presidente Anief – siamo pronti a raccogliere le firme per un referendum abrogativo, come già accaduto a Trento, dove esemplari sono state le sentenze, n. 242/2011, della Consulta che hanno bloccato le nuove norme proposte dalla provincia autonoma di Trento, in riferimento all’art. 92, c. 2bis, legge 5/2006, e ad andare dinanzi alla Corte Costituzionale: nel frattempo, faremo di tutto per far dichiarare questo modello organizzativo scolastico illegittimo dal giudice delle leggi. Abbiamo già la scuola dell’autonomia, non abbiamo bisogno della scuola delle regioni. Gli istituti scolastici sono autonomi da vent’anni per Costituzione, per valorizzare di più il territorio e la libertà d’insegnamento”. 

“Piuttosto che far transitare il personale dallo Stato alle Regioni – ha detto ancora il sindacalista autonomo -, il Governo farebbe bene a trovare il modo di assegnare organici differenziati e ulteriori risorse economiche, per centrare obiettivi specifici mirati a colmare il gap di formazione e occupazione tra le aree del Paese. Questo chiediamo al Governo e con noi i tanti cittadini riuniti oggi davanti alla Camera”.

(fonte: Ufficio Stampa Anief)

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“No regionalizzazione scolastica”, il 25 a Roma manifestazione nazionale

palazzo montecitorio camera deputati roma

No regionalizzazione scolastica, piazza Montecitorio ore 14.00 (orario di ingresso dei parlamentari), il 25 giugno 2019 a Roma “Sì all’eguaglianza dei bambini e giovani italiani, no alla scuola regionalizzata”. Questo il comunicato di convocazione della manifestazione da parte dei suoi organizzatori.

Il comunicato

Si è dimostrato con la Sanità che anche qualora lo stato mantenesse l’autorità di stabilire i Livelli Essenziali minimi, il processo di controllo, sanzione e sussidiarietà, è risultato pressoché inapplicabile e inapplicato.

I cittadini sono tutti uguali, i bambini devono essere tutti eguali di fronte ai diritti costituzionali, primo fra tutti l’istruzione. Per tutelare il valore di eguaglianza naturale dei cittadini, la costituzione istituisce il sistema statale pubblico dell’obbligo scolastico con cui si garantisce a tutti la qualità del livello d’istruzione ed educazione sui comuni valori etici e sociali di solidarietà e cooperazione anche per superare ogni tipo di disuguaglianza e discriminazione. L’autonomia differenziata risulterebbe lesiva di principio sancito storicamente sin dalla proclamazione della Repubblica. Infatti una qualsiasi modalità di differenziazione della tipologia e qualità della scuola dell’obbligo per territori porterebbe, ancorché fossero garantiti i livelli minimi (condizione per esperienza irrealizzabile), ad una sperequazione sul livello di istruzione sostenuto con la spesa pubblica e quindi ad un’effettiva scuola di serie A per le regioni più ricche ed una di serie B per le regioni meno ricche e la possibilità di discriminazioni negli stessi territori, come già avviene, sulla base di una discrezionalità nel distribuire le risorse e le opportunità. Va evidenziato che questa differenziazione sulla qualità della scuola pubblica su base regionale ingigantirebbe gli ostacoli per le fasce meno abbienti della cittadinanza impedendone il pieno sviluppo della persona umana e ” limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini ” (art. 3 della Costituzione) .

La protezione della scuola repubblicana è la difesa della scuola statale, attaccata da diversi decenni attraverso tagli economici. Siamo infatti il terzultimo paese per spesa pro capite per l’istruzione pubblica e l’ultimo per la quota di questa spesa sul totale della spesa pubblica. Questa aggressione viene portata avanti anche con l’incremento continuo della burocratizzazione: dal Dirigente scolastico all’ultimo applicato di segreteria, devono compilare moduli per le più banali e ripetitive attività. Possiamo capire cosa significa la regionalizzazione: permettere alle Regioni più forti di migliorare le proprie scuole a danno delle Regioni più povere. Si tratta di autorizzare regioni con il 40% del PIL italiano a trattenere un’alta percentuale dei tributi pagati dai cittadini, senza contare che ci possono essere differenze di luogo tra la produzione e la riscossione qualora le aziende del nord hanno i loro stabilimenti al sud.

Esempi degli effettletali della regionalizzazione lo abbiamo già nella formazione professionale che da anni, con la riforma del titolo V° della Costituzione, è stata totalmente attribuita alle regioni (legge 53/03) che in merito hanno ottenuto pieno potere legislativo. Vediamo come risultato una totale difformità di qualità formativa ed un dissolvimento degli enti pubblici in favore dei vari enti privati convenzionati (ovvero finanziati con soldi pubblici) perlopiù afferenti agli ordini religiosi o legate in qualche modo alle tre principali sigle sindacali nazionali. Constatiamo che di fatto tali enti privati sono arrivati a condizionare la legislazione regionale a loro favore, degli enti non certo degli studenti. Esempio ne è stata la legge sul “sistema educativo regionale di istruzione e formazione professionale” del Lazio, ovvero la LR 5/15 della giunta Zingaretti che era partita addirittura come “la legge della suora”, e che solo grazie all’opposizione M5S, è stata riequilibrata a vantaggio dei cittadini e non degli enti privati, nel caso religiosi. Bisogna allora stare molto attenti e mettere bene a fuoco gli effetti della Regionalizzazione sul settore scolastico formativo, non si tratta solo dei programmi scolastici; si tratta dell’assunzione del personale scolastico con concorsi regionali per dirigenti, docenti e non docenti e della messa in ruolo nella Regione; si tratta che le Regioni potranno decidere chi va dove e di quanto personale potrà disporre una scuola. Non esiste alcuna motivazione organizzativa alla dimensione regionale del sistema scolastico. L’unico effetto sarebbe di permettere alla politica regionale di influenzare assunzioni e concorsi dirigenziali del sistema scolastico, come successo in ambito sanitario, rendendo la scuola uno strumento di scambio elettorale. Questi effetti di malamministrazione specifici delle Regioni porteranno anche per la scuola come per la sanità ad incrementare il divario della qualità della scuola tra NORD e SUD. Se vediamo il divario è già presente tra nord e sud sia nel maggiore abbandono scolastico sia nel livello di efficacia formativa come risulta dai dati INVALSI. Con la regionalizzazione, che porta maggiori risorse alle Regioni più ricche del NORD, si avrà un incremento di tale divario a danno dei bambini e giovani italiani residenti al sud. Altro esempio di analogia con la sanità della differenza nord sud causata dalla regionalizzazione sta nella qualità degli edifici, nella popolazione degli alunni per classe, basta vedere un ospedale in Lombardia ed uno in Calabria, e scoprire che la differenza non viene dalla geografia, ma dalle superiori risorse assegnate alla Lombardia rispetto la Calabria rispetto a parita di posti letto. Si tratterà anche di favorire enti privati ponendoli a carico della spesa pubblica, come avviene già per la formazione professionale e in misura maggiore per la sanità, dove alla inefficienza delle strutture pubbliche le Regioni fanno fronte con convenzioni con enti privati. La già disattesa regola costituzionale delle scuole private senza oneri per lo stato, sarà ancora più disattesa. Quindi non solo scuole pubbliche di serie A e di serie B, ma anche il proliferare di scuole private convenzionate (pagate) con le Regioni. E’ inoltre da considerare che la separazione di competenze al momento centralizzate non può che incrementare il costo complessivo di gestione del sistema scolastico a causa delle numerose duplicazioni di funzioni al momento centralizzate a livello nazionale.

Non si tratta solo di contestare con un chiaro e semplice NO alla scuola regionalizzata, si tratta di prendere coscienza e portare avanti proposte capaci di interrompere ogni tentativo di disgregazione della Istruzione Pubblica Statale della Repubblica, cominciata con la Riforma Berlinguer e consolidata con la Legge 62 di Fioroni. Proponiamo e pretendiamo una inversione di rotta:

  •  più risorse per la scuola: raggiungere il 6% del PIL a partire dalla prossima finanziaria,
  • messa in sicurezza degli edifici,
  • riduzione degli alunni per classe,
  • adeguamento degli stipendi alla media europea per il personale scolastico (dirigenti, docenti, non docenti),
  • assunzione in ruolo solo per concorso statale con obbligo di conoscenza lingua e cultura italiana,
  • privilegiare la formazione curriculare sulla progettazione,
  • scuola-lavoro, fuori dall’orario scolastico e solo con retribuzione al discente,
  • controllo della qualità del servizio solo attraverso l’ispettorato ministeriale statale,
  • estensione dell’obbligo di scolastico da 16 a 18 anni,
  • incremento dei nidi e scuole materne gratuiti,
  • stabilità pluriennale nell’organizzazione formativa e discipline di esami,
  • mantenimento del valore legale del titolo di studio,
  • formazione dei docenti di qualità solo presso le università statali, con programmi standard certificati e con esame di abilitazione professionale
  • ultimo ma non meno importante, riportare le competenze della formazione professionale, allo stato.
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Regionalismo e autonomia, scontro a distanza Anief – CNA

Anief Sciopero

“Per quale motivo le regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna spingono per ottenere la regionalizzazione di diverse competenze pubbliche, tra cui la scuola? La risposta è nelle parole del presidente di Cna Lombardia, Daniele Parolo, intervenuto a Milano, nel corso di un convegno dal titolo “Autonomia e regionalismo differenziato: i dati dell’Osservatorio delle Cna Lombardia, Emilia Romagna e Veneto” presentati con Carlo Cottarelli. Secondo il leader della Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa lombarda, l’applicazione del regionalismo differenziato diventerebbe una leva per la crescita economica: in particolare, ha detto, “l’autonomia che vogliamo è uno strumento per disporre di maggiori risorse per lo sviluppo e per la crescita””.

“Le spinte autonomiste continuano a trovare terreno fertile tra i vari esponenti della Lega. A partire dai ministri della Repubblica. In particolare dalla ministra alle Regioni, Erika Stefani, che non si dà ancora per vinta dinanzi al rafforzamento dell’ammuina pentastellata. In un’intervista ad un quotidiano locale, Stefani dice di assistere ad “una marea di polemiche e argomentazioni sui giornali, in televisione, nei convegni, insomma fuori dal ministero, ma non ho ancora visto uno che si opponga a questa riforma davanti a me. Se è propaganda elettorale, lo si dica””.

“Secondo la ministra alle Regioni, quindi, “tutto questo allarmismo su scuola e sanità propalato da alcuni è infondato, perché purtroppo già oggi ci sono cittadini di serie B, il che evidentemente non può dipendere da un’autonomia differenziata che ancora non c’è, ma da un problema di mala gestione. Noi con l’autonomia vogliamo far crescere il Paese, non certo creare differenze. Invece vengono diffuse informazioni non veritiere. Alimentare l’odio Nord-Sud è da irresponsabili: oggi c’è bisogno di condividere i percorsi, non di alimentare divisioni che fanno solo male””.

Lo sottolinea Anief in una nota che Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief, commenta ritenenfo che le affermazioni del presidente di Cna Lombardia e della ministra alle Regioni siano particolarmente gravi: “siamo arrivati al punto di ammettere – spiega il sindacalista autonomo – che siccome esiste già un gap evidente tra Nord e Sud, invece di lavorare tutti assieme per colmarlo, non c’è nulla di male nel legiferare perché le regioni del Settentrione si elevino ancora di più, incrementando i bilanci locali rispetto al Pil. Le scuole del Sud, dove gli alunni se ne vanno con facilità e le strutture locali non supportano l’opera dei docenti e del personale, hanno bisogno di essere sostenute, non lasciate al loro destino”. 

“Pensare di spezzettare l’istruzione pubblica, come quella sanitaria e degli enti locali, e avere il consenso di chi sta andando a fondo – continua Pacifico -, è un’operazione che non possiamo accettare. La stessa intesa di Palazzo Chigi sul comparto Istruzione, della mattina del 24 aprile scorso, con il via libera dei sindacati maggiori, non offre alcuna garanzia sulla tenuta nazionale del sistema nazionale, va a ledere e vanifica la scuola dell’autonomia, il rapporto fra Stato e Regioni e la nostra Costituzione, né tantomeno a livello di finanziamenti, di organizzazione e di reclutamento scolastico”. 

Di fronte a questo possibile modello, Anief si è subito opposta, raddoppiando le giornate di sciopero, come ufficializzato dalla Commissione di Garanzia: sempre il suo leader, Marcello Pacifico, ricorda che “venerdì prossimo, 17 maggio, ci fermeremo di nuovo, assieme ai sindacati di base, scendendo anche in piazza a Roma, dove grideremo il nostro diniego al folle progetto di regionalizzazione che, affiancato all’inerzia sui concorsi, alla mancata apertura delle GaE, all’inconsistenza degli aumenti, alla mancata equiparazione dei diritti dei precari ai colleghi di ruolo, all’indifferenza verso la stabilizzazione di Dsga e personale Ata, rischia di affossare definitivamente l’istruzione pubblica in Italia”.