Cresce l’età media dei docenti italiani, con due su tre che hanno più di 50 anni. E con loro cresce anche il livello di usura psicofisica: lo sostiene il dottor Vittorio Lodolo D’Oria, tra i massimi esperti nazionali sulle malattie derivanti da attività professionali, secondo il quale nella scuola, come in tutto il pubblico impiego, “dal 1992 al 2012 sono intervenute quattro riforme previdenziali ‘al buio’, cioè senza valutare la salute della categoria professionale dei docenti”. Marcello Pacifico (Anief): “Basta indugi: ci sono decine di migliaia di docenti in attesa, che meritano l’accesso alla pensione adottato nella maggior parte dei Paesi europei. In caso contrario, le loro condizioni psico-fisiche sono destinate a peggiorare, con lo Stato che se ne dovrà pure fare carico”.
La salute del corpo insegnante italiano non è buona. Dopo aver esaminato “i casi di due docenti relativamente giovani (la più grande ha 50 anni) che sono già stremate e manifestano le classiche somatizzazioni oltre a un forte senso di inadeguatezza nei confronti degli stessi alunni”, l’esperto di patologie da professione scrive su Orizzonte Scuola un’amara verità: “All’alba del terzo millennio non sono ancora riconosciute le malattie professionali degli insegnanti, non è finanziata la prevenzione e si usano terminologie che non hanno rilevanza medica ai fini della cura e dell’indennizzo (burnout, stress lavoro, correlato, rischi psicosociali). Nel giro di 20 anni siamo perciò passati dall’insostenibile situazione delle baby-pensioni ai 67 anni per andare in quiescenza. Stiamo perciò assistendo ai frutti degenerati di un sistema perverso”, conclude Lodolo D’Oria.
Anief ricorda che sull’incidenza delle patologie da stress ha certamente il suo peso l’ultimo rapporto realizzato dalla Commissione europea sull’età degli insegnanti italiani, ormai avanti negli anni come nessuno in Europa: ben il 58% ha oltre 50 anni, contro una media Ocse del 34%. Inoltre, sempre per la Commissione Ue, “l’Italia ha una delle più alte percentuali di insegnanti donne tra gli Stati membri, donne che quasi sempre devono sobbarcarsi il carico della famiglia e dei figli: nel 2016 – si legge ancora nel rapporto dell’Ue – le insegnanti donne erano il 99% nella scuola materna, il 63% nella secondaria superiore e il 37% nelle università”.
Dopo avere esaminato certi numeri, bisogna poi giungere alle inevitabili conclusioni. Quelle a cui è giunta di recente l’Organizzazione mondiale della Sanità, secondo la quale il burnout è il tipico malessere cronico che si riscontra nei lavoratori della scuola, come una sindrome che conduce allo ‘stress cronico’ impossibile da curare con successo. Il sindacato, a questo proposito ha chiesto di collocare l’insegnamento, non solo quello nella scuola dell’infanzia, nell’Ape Social.
“Il Governo – spiega Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief – deve avviare un’inchiesta come abbiamo in passato scritto al MEF perché non ha mai voluto verificare il tasso di segnalazioni di stress da lavoro correlato nell’esercizio della professione del personale docente, Ata e dirigenziale né il numero di patologie invalidanti. La volontà di evitare magari nuovi aggravi finanziari dovuti al riconoscimento di quello che sempre più studi ci dicono non può compromettere la corretta adozione di tutti gli strumenti per contenere e monitorare questo fenomeno nel servizio che vogliamo offrire ai cittadini e nella tutela dei lavoratori. E non parliamo di malanni passeggeri di poco conto. Basta dire che le malattie professionali dei docenti che determinano l’inidoneità all’insegnamento nell’80% dei casi presentano una diagnosi psichiatrica“.
Un’indagine nazionale, volta a indagare diversi ambiti problematici connessi con lo sviluppo della sindrome di burnout, ha rilevato che l’alta incidenza di malattie psichiatriche ed oncologiche tra coloro che soffrono o hanno sofferto di stress da lavoro è correlata, tra i docenti, alla mancanza di una rete (di esperti, di colleghi, etc.) che contribuisca a fornire un supporto sempre presente e disponibile nei momenti di inevitabile difficoltà vissuti in ambiente scolastico.
“È ora di finirla con la convinzione errata che appiattisce le professioni – continua Pacifico -: siccome stiamo parlando di un lavoro stressante e gravoso, quale è l’insegnamento, è giunta l’ora che i docenti italiani vengano collocati in pensione così come avviene nei Paesi europei con i loro insegnanti: attorno ai 60 anni di età o con meno di 30 anni di contributi e senza particolari decurtazioni sull’assegno di quiescenza. Non più legando l’uscita dal lavoro all’aspettativa di vita, come accade da noi”.