“Le dichiarazioni dei ministri dell’Istruzione del G20 sull’importanza della lotta alla povertà educativa, che soprattutto nel nostro Mezzogiorno raggiunge livelli inaccettabili, ci trova pienamente d’accordo. Ci auguriamo che in futuro il dialogo, in particolare tra i ministri dell’Istruzione dell’Unione europea, riesca a entrare nel merito di alcune questioni secondo noi cruciali come quella delle abilitazioni”.
Ad affermarlo è Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli Insegnanti, che ricorda come la normativa europea preveda il riconoscimento e la spendibilità reciproca in ogni Paese Ue di tutte le abilitazioni professionali, compresa quella all’insegnamento.
“Sarebbe opportuno – dichiara Di Meglio – che si riuscisse ad assimilare quanto più possibile i percorsi abilitativi che oggi sono estremamente differenti, provocando in qualche caso la migrazione verso i Paesi dove sono più brevi e semplici. Se vogliamo davvero essere sempre più europei – conclude il coordinatore nazionale della Gilda – è necessario che i governi affrontino anche questa problematiche”.
Pubblicata e disponibile in cinque lingue la Carta che ha l’obiettivo di armonizzare diritti e doveri dei professionisti dell’istruzione, uniformando, a livello continentale, anche reclutamento, stipendi e pensioni.
È realtà il Manifesto
europeo della professione insegnante, nato sotto l’egida della Cesi (la
Confederazione Europea dei Sindacati Indipendenti), col dichiarato intento di
armonizzare diritti e doveri dei professionisti dall’istruzione e della formazione
in tutto il continente. Annunciato già lo scorso novembre, nel corso della due
giorni di confronto a Lisbona su “Professionisti
e sindacati dell’istruzione: Horizon 2025”, il Manifesto è adesso
disponibile in cinque lingue, oltre che in formato cartaceo, anche
in quello elettronico sul sito web della Cesi.
CENTRALITÀ E VALORE
ALLA PROFESSIONE
Le autorità nazionali
ed europee devono restituire valore alla professione dell’insegnante, creando
un ampio sostegno all’istruzione e ai suoi lavoratori, da considerare come
protagonisti del cambiamento sociale, attori di una professione nobile ma non
sufficientemente apprezzata. Con questo spirito, tra le sfide del Manifesto ci
sono quelle di uniformare reclutamento, stipendi, progressione di carriera e
pensioni, oltre che diffondere i valori della cittadinanza dell’Unione
improntati al rispetto del diritto e del lavoro e alla giustizia sociale.
AUTONOMIA E
FORMAZIONE
Tra i primi punti del
Manifesto c’è il pieno riconoscimento dello status degli insegnanti, la loro stabilità
professionale, un tenore di vita dignitoso e la complessiva promozione di un
insieme minimo di condizioni per esercitare la professione. Sono poi centrali
l’idea dell’autonomia pedagogica, quella che l’istruzione non sia accessibile
solo a classi sociali privilegiate e che sia importante, per i docenti, una
formazione professionale che abbracci pedagogia e psicologia giovanile, ma
anche nuove tecnologie e social media.
CONOSCENZE E VALORI
CONDIVISI
Previste dal Manifesto, fra le missioni degli insegnanti c’è non solo la trasmissione di conoscenze, ma anche quella di valori condivisi, quelli dell’Europa unita (solidarietà, cittadinanza, rispetto degli individui, libertà di pensiero, azione e movimento, tolleranza e bene della comunità). Le organizzazioni sindacali del comparto Istruzione possono e devono sensibilizzare l’opinione pubblica affinché investano sul personale e sul loro benessere, a dispetto di una situazione economica e sociale estremamente eterogenea. L’Unione Europea, stimolata anche dai sindacati, deve promuovere politiche educative ambiziose e di qualità, attuate da professionisti debitamente formati, riconosciuti, valorizzati e retribuiti.
Il commento di Anief
«Così – commenta Marcello Pacifico, presidente nazionale di Anief e vicepresidente dell’Accademia Europa della Cesi – si alimenta la costruzione di un’identità e un’idea di cittadinanza europea, che ha come veicolo principale l’attività pedagogica dell’insegnamento».
Svolgono lo stesso lavoro ma vengono remunerati di meno: in questa condizione si trovano circa 300 mila insegnanti della scuola pubblica. L’Ufficio Studi del sindacato ha realizzato un focus: considerando le ore di lezione settimanali, il grado di responsabilità, il coinvolgimento professionale e la complessità dell’offerta formativa, ha constatato che non vi è alcuna differenza. Una norma afferma in modo esplicito che in Italia si considera di pari dignità la formazione iniziale di ogni docente. Nella stessa condizione sono gli Itp e i docenti di sostegno laureati. Se poi si guarda all’Europa, esce fuori il solito raffronto impietoso.
Un insegnante laureato
che svolge attività di insegnamento nella scuola del primo ciclo, per quale
motivo deve percepire uno stipendio inferiore a quello dei colleghi della
secondaria anch’essi laureati? A chiedere spiegazioni all’amministrazione
pubblica è il sindacato Anief, dopo avere raccolto una lunga serie di richieste
di equiparazione stipendiale.
LO STUDIO ANIEF
Sulla base di diversi
parametri oggettivi, l’Ufficio Studi dell’organizzazione sindacale ritiene che
l’osservazione sia pertinente: le
ore di lezione settimanali svolte da un docente della
scuola primaria e dell’infanzia sono superiori a quelle del secondo ciclo; il grado di responsabilità quotidiana
nell’affidamento degli alunni, in tenera età risulta il più alto; il grado di coinvolgimento professionale,
anche con le famiglie, non è certo da meno rispetto a quello che si instaura
nella secondaria; se è infine vero che il livello di complessità dell’offerta
formativa è minore, c’è però da constatare che la minore ricettività ad apprendere
degli alunni rende comunque sempre molto impegnativo il
raggiungimento quotidiano e finale degli obiettivi.
A tutto questo c’è da
aggiungere, poi, una precisa norma, contenuta nella Legge 53 del 2003:
all’articolo 5 comma I lettera A, infatti, c’è scritto in modo esplicito che in
Italia si considera di pari dignità la formazione iniziale di ogni docente.
Questo significa che ai fini della collocazione professionale, anche
stipendiale, non conta la scuola dove si opera servizio, ma il titolo di
accesso: un titolo, peraltro, che per la stessa scuola del primo ciclo oggi è
proprio quello della laurea.
IL RAFFRONTO CON
L’EUROPA
Tutti questi aspetti
sono ben considerati in diversi altri Paesi europei, dove, infatti, lo
stipendio dei docenti con laurea viene assegnato prescindendo dal tipo di
insegnamento che si svolge. In
Irlanda e Danimarca, ad esempio, lo stipendio iniziale è il
medesimo per tutti i cicli scolastici, salvo poi differenziarsi lievemente a
fine carriera. In Portogallo,
Slovenia, Grecia, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, i
compensi dei docenti della scuola pubblica non si differenziano mai, né ad
avvio carriera né al termine.
Ma anche laddove si
attuano delle differenze tra chi insegna nel primo ciclo e chi nel secondo, va
considerato che in
Europa la remunerazione annua complessiva di un docente della primaria è
decisamente superiore, in
alcuni casi doppia, rispetto a quella dei nostri maestri
laureati: il caso della Germania è
emblematico, visto che appena assunto un docente delle elementari tedesche
percepisce oltre 45 mila euro, contro i 24 dei nostri maestri; al termine della
carriera il maestro
tedesco supera i 60 mila euro, contro appena i 35 mila euro
di chi svolge lo stesso lavoro nel Belpaese e a condizioni orarie e generali
pressoché uguali. A questo proposito, Anief ricorda che in Italia i compensi
nella scuola risultano i
più bassi della pubblica amministrazione, dopo che hanno
perso mille euro di potere d’acquisto solo negli ultimi sette anni, non
certo compensati dall’irrisorietà
degli aumenti dello scorso aprile e la quota forfettaria di arretrati
insignificante e nemmeno dall’applicazione dell’indennità di vacanza
contrattuale scattata ad aprile e ritoccata
nel prossimo mese di giugno, peraltro anche incompleta.
Così si giunge alla
conclusione più amara, quella che in Italia i maestri laureati della scuola
primaria vengono penalizzati
due volte: prima di tutto perché sono pagati meno degli altri
laureati e poi perché dovrebbero percepire un
salario più alto di almeno il 30%. Lo stesso discorso, inoltre, vale
per gli Itp laureati
delle superiori, anche loro degradati economicamente. Ma
l’apice dell’assurdo del nostro sistema remunerativo scolastico si raggiunge,
probabilmente, con gli
insegnanti di sostegno laureati, giunti a questo delicato
genere di docenza attraverso il livello inferiore (il VI anziché il VII):
praticamente, svolgono lo stesso lavoro dei colleghi, sono in possesso del
medesimo titolo di studio, hanno quindi un’identica preparazione complessiva,
ma vengono pagati di meno.
IL COMMENTO DEL
PRESIDENTE ANIEF
“Come presidente dell’Anief, che dalla sua nascita combatte le ingiustizie nella scuola – dichiara Marcello Pacifico, leader del giovane sindacato nazionale neo rappresentativo – ritengo che questo problema debba essere affrontato nei tavoli di contrattazione con il Ministero dell’Istruzione: l’amministrazione pubblica, infatti, non può continuare ad utilizzare certi stratagemmi per fare cassa sui lavoratori. Un insegnante laureto ha affrontato in ogni caso una lunga serie di esami universitari, con notevoli sacrifici e costi annessi, ha acquisito un’abilitazione all’insegnamento e vinto un concorso pubblico per arrivare alla cattedra. Se le condizioni di partenza solo le stesse e il lavoro che svolge è uguale o comunque rientra nella stessa professionalità, per quale motivo permane tale discriminazione?”
Un’occasione
per poter approfondire e conoscere le tematiche europee in materia di
cittadinanza. Sono partite lo scorso 22 febbraio, e fino al 6 aprile 2019, Trivia
Quiz 2019, il torneo interscolastico sull’Europa e la cittadinanza europea dove
le classi delle scuole italiane di ogni ordine e grado potranno sfidarsi online
sulla piattaforma digitale Europa=Noi. Le nove classi vincitrici (3 per la
scuola primaria, 3 per la secondaria di I grado e 3 per la secondaria di II
grado) saranno premiate a Roma, con un attestato di merito, in occasione di un
evento istituzionale.
Il
Trivia quiz, giunto alla sua quinta edizione, è una iniziativa inserita nel
progetto formativo Europa=Noi, promosso dal Dipartimento per le Politiche
Europee, e rappresenta una originale occasione di apprendimento di alcuni tra i
temi più rilevanti dell’Unione Europea.
Per parteciparvi, i docenti potranno accedere alla piattaforma Europa=Noi e procedere alla registrazione gratuita. Tutti i link utili sono reperibili alla seguente pagina web.
Italia in retromarcia: aumentano i giovani che si fermano alla scuola media e non trovano lavoro. Lo dice il sesto rapporto Istat Bes 2018 “Il benessere equo e sostenibile in Italia”, pubblicato in queste ore.
Lo scorso anno i giovani di 18-24 anni con la licenza media che non sono inseriti in un percorso di istruzione o formazione erano il 14%, lo 0,2% rispetto al 2016. Tremendi i dati riferiti al sud Italia, a partire dalla Sicilia, dove la quota di mancata partecipazione al mercato del lavoro e occupazionale raggiunge il 40,8%: dieci volte di più rispetto a Bolzano. Anche la percentuale di persone di 25-64 anni con almeno il diploma è molto più bassa della media europea (60,9% contro 77,5%).
In generale, la nostra Penisola si contraddistingue per la mancata crescita della cultura media dei suoi cittadini: in Italia – si legge nel rapporto – i principali indicatori dell’istruzione e della formazione si mantengono molto inferiori alla media europea. Le persone di 30-34 anni che hanno completato un’istruzione terziaria (università e altri percorsi equivalenti) sono state il 26,9%, una percentuale ancora distante dalla media europea (39,9%). Tra i paesi Ue soltanto in Romania il valore è inferiore (26,3%).
Anche la percentuale di persone di 25-64 anni con almeno il diploma è significativamente più bassa di quella media europea (rispettivamente 60,9% e 77,5%). Solo Spagna (59,1%), Malta (51,1%) e Portogallo (48%) hanno segnato percentuali più basse. Più contenuto appare lo svantaggio rispetto agli altri paesi Ue per la formazione continua: l’Italia occupa il 18esimo posto con il 7,9% di individui, contro il 10,9% della media europea.
Il commento di Anief: il dazio da pagare per la poliedricità geografica dell’Italia è altissimo
Il rapporto è al centro dell’ultima comunicazione di Anief, che commenta con Marcello Pacifico questi allarmanti dati: “Il dazio da pagare per la poliedricità geografica dell’Italia è altissimo, perché questi dati Istat ci confermano che a farne le spese sono soprattutto quelle aree del Paese prive di agenti culturali e di quel sostegno sociale necessario a supportare giovani che presentano difficoltà a scuola e appartenenti a famiglie non in grado di sostenerli. È in questi contesti che diventa centrale e decisivo, se si vuole davvero cambiare registro, introdurre il tempo pieno e prolungato in tutte le scuole del primo ciclo: un obiettivo che non si può di certo centrare assumendo appena 2 mila maestri alla primaria ogni anno”.
“Come Anief, da tempo chiediamo anche di attuare organici differenziati per territorio, con maggiorazioni da prevedere per tutte le zone a rischio, facenti registrare un alto tasso dispersivo e di stranieri. Bisogna quindi puntare alla continuità didattica, attraverso l’assorbimento del precariato con la riapertura delle GaE, operazione indispensabile per evitare i licenziamenti dei docenti precari abilitati, a partire dal primo ciclo dove operano i maestri con diploma magistrale e laureati in Scienze della formazione primaria. Oltre che legiferare una volta per tutte l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni, con contestuale anticipo dell’avvio scolastico a 5 anni, età in cui si svolgerebbe un anno scolastico “ponte” avvalendosi di maestri dell’infanzia e della primaria in compresenza”.
“Pensare di introdurre delle ore di educazione civica obbligatoria già nella scuola dell’infanzia con alcuni progetti e dalla primaria con 33 ore annuali obbligatorie è un’idea convincente, ma a due condizioni: quelle ore devono essere aggiuntive e riguardare anche la storia europea”: a sostenerlo è Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal, a commento della proposta di legge che sarà presentata alla Camera nel prossimo mese di gennaio 2019, con l’impegno del Ministro dell’Istruzione Marco Bussetti di seguirne l’iter per giungere presto all’approvazione.
“Introdurre delle ore di scuola sull’educazione civica è un passaggio fondamentale per contrastare la deriva di aggressività ed intolleranza che si è venuta a determinare negli ultimi anni, anche all’interno degli istituti scolastici. Tuttavia, si deve trattare di un aumento di offerta formativa e non certo di una sottrazione di altre, come invece sembrerebbe voler fare il Miur. Si tratterebbe, in questo caso, di un travaso di 33 ore annuali da una disciplina all’altra. In particolare, non avrebbe alcun senso sottrarre delle ore a Storia: prima di tutto perché già ingloba nei suoi programmi questo genere di contenuti e poi perché, semmai, la Storia va potenziata, non certo ridotta”.
Il sindacalista, che solo pochi giorni fa ha espresso questi concetti a Lisbona, nel corso del convegno Accademia Europea Cesi su Horizon 2025, sostiene anche che nel pacchetto aggiuntivo di educazione civica debba essere presente la costruzione dello Stato di diritto: “partendo dalle Carte fondamentali e dai Trattati Europei, ha già trovato un’ossatura importante nelle diverse direttive che regolano la nostra vita – ricorda Pacifico -: occorre che le nuove generazioni conoscano la storia europea e le regole che la governano fin dal Duecento, perché mai come oggi questi contenuti si intrecciano con lo studio della storia, del pensiero, dell’economia, della società e di nostri valori comuni da rintracciare”.
“In Italia – si legge nella nota diffusa dal sindacato – l’attuale governo sembrerebbe più attratto da progetti che puntano ad una didattica sempre più localistica, sulla spinta di impulsi che portano alla regionalizzazione piuttosto che all’allargamento dei confini”.
“Sapere da dove arriviamo – dice ancora il leader Anief – significa conoscere il rapporto di alterità-identità ed è compito di noi educatori ricostruire un legame senza il quale nessuno si può riconoscere pienamente in quel progetto di pace e giustizia, in primo luogo sociale, che vuole e deve essere l’Europa dei nostri Padri fondatori. Bisogna sentirsi fieri di essere cittadini europei, dentro uno spazio che dal nome stesso di Europa, principessa libanese, ci rimanda a uno ben più ampio, euro-mediterraneo, rispetto anche a quello descritto da Braudel, comunque aperto e non di frontiera. Ecco perché quando si parla di cittadinanza e costituzione non ci si deve fermare alle barriere nazionali”.
Non lavorano, non studiano, non si formano: in Italia la questione NEET assume i connotati di un dramma. Lo afferma L’Eurispes.it, il portale d’informazione nato in seno a Eurispes.
Chi sono i NEET
NEET è l’acronimo di Not in Employment, Education or Training. Questa sigla è utilizzata per indicare quella nuova, ampia fascia di popolazione che include i giovani con una età compresa tra i 15 ed i 24 anni che non lavorano, non studiano e non vogliono intraprendere attività formative.
Un fenomeno in costante ascesa, legato sicuramente alle congiunture del mondo moderno che oggi pongono in questa condizione 2,2 milioni di persone in Italia. In percentuale quasi il 25 percento. Detto ancora più semplicemente, 1 su 4.
Divario drammatico tra nord e sud
Se il dato italiano colloca l’intero Paese agli ultimi posti della classifica europea, a far ancora più riflettere è il dato interno. Se al nord si registra un drammatico 17 percento di NEET sul monte giovani, questa cifra raddoppia (e supera il 34 percento) al sud. E la forbice si è ulteriormente divaricata negli ultimi anni.
Tra le città metropolitane del Sud, percentuali preoccupanti a Palermo (41,5%) e Catania (40,1%), Messina (38,5%), Napoli (37,7%) e Reggio Calabria (36,8%).
Italia fanalino di coda dell’Europa intera
Con il 24,3 percento di giovani NEET, l’Italia si piazza all’ultima posizione in Europa. Il Belpaese riesce a far peggio di Cipro (22,7%), Grecia (21,4%), Croazia (20,2%) e Romania (19,3%). In questa particolare classifica il Paese virtuoso per eccellenza è l’Olanda, dove la percentuale di NEET si attesta intorno al 5,3 percento, seguito dopo pochi punti da Slovenia e Austria.
Il trend, però, è pericolosamente in crescita in tutto il Continente.
Chi è a rischio NEET
È stato rilevato da Youth Forum e da Eurofond che tra i ragazzi con una età tra i 15 e i 24 anni, quelli maggiormente a rischio Neet sono i soggetti che presentano delle disabilità, quelli con un background di immigrazione, i giovani con un basso tasso di istruzione o con un reddito familiare basso, con genitori disoccupati e con un basso livello di istruzione.
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