Diventa pubblico il documento tecnico con cui il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel rivolgersi al Capo del Governo, assume una forte posizione contraria rispetto al progetto leghista, che attraverso l’approvazione di una serie di elementi incostituzionali porterebbe all’affossamento delle regioni del Sud. Gli esperti di legislazione, inoltre, avvertono: bisogna “garantire il ruolo del Parlamento”.
Sul progetto di
regionalizzazione della scuola, della sanità e di una serie di servizi
pubblici, le ragioni della Lega si stanno sciogliendo come neve al sole: dopo
quelle spiegate qualche giorno fa dall’on. Luigi Gallo, presidente della
Commissione Cultura della Camera, il quale oggi, in
un’intervista ad Orizzonte Scuola, ha detto che “l’autonomia si può
realizzare in tanti modi”, ma di sicuro “il M5S non permetterà un progetto che
aumenti le disuguaglianze sociali e territoriali”, ad esprimere forti dubbi sul
testo fermo in Consiglio dei Ministri è ora anche il “Dipartimento per gli
affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri”,
che ha fornito una lucida sintesi sui principali elementi di criticità, anche
sotto il profilo della legittimità costituzionale.
Con un
documento indirizzato al premier Giuseppe Conte, reso pubblico in queste
ore, gli esperti di leggi dello Stato hanno palesato il fondato rischio, in
fase di approvazione dell’importante provvedimento di legge, di aggiramento del
dibattito parlamentare da parte del Governo: per il Dipartimento, non basta
l’accordo tra Stato e Regioni per dar via all’applicazione dell’articolo 116,
terzo comma, della Costituzione. Gli schemi di intesa sulle ulteriori forme e
condizioni particolari di autonomia nelle Regioni Lombardia, Veneto ed
Emilia-Romagna hanno necessità di un passaggio legislativo.
“Nel delineare il
relativo procedimento in sede di prima applicazione – si legge nel documento
indirizzato al premier -, appare necessario garantire il ruolo del Parlamento,
assicurando nelle diverse fasi procedurali un adeguato coinvolgimento
dell’organo parlamentare, la cui funzione legislativa risulterebbe direttamente
incisa dalle scelte operate nell’ambito delle intese”. Il pericolo è quindi
che Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, promotrici del progetto, possano
riuscire ad ottenere più finanziamenti a discapito delle altre regioni con già
meno servizi e risorse.
Il Dipartimento del
CdM ricorda che la “modalità di determinazione delle risorse prevede, infatti,
che la spesa destinata alla Regione per l’esercizio delle ulteriori forme e
condizioni particolari di autonomia non possa essere inferiore al valore medio
nazionale pro-capite della spesa statale per l’esercizio delle stesse”. Poi
esemplifica: “se una Regione virtuosa ha una spesa storica nella materia
trasferita pari al 70 per cento di quella media nazionale, e se si ipotizza che
la relativa popolazione è pari al 10 per cento di quella nazionale,
l’attribuzione di risorse non secondo il criterio storico, ma in base alla
media nazionale, farebbe salire quest’ultima del 3 per cento (perché si
perderebbe un risparmio del 30 per cento riferito al 3 per cento della
popolazione)”. La conclusione è che “risulta dunque agevole comprendere come un
tal modo di procedere implicherebbe un ingiustificato spostamento di risorse
verso le regioni ad autonomia differenziata, con conseguente deprivazione delle
altre (doverosamente postulandosi l’invarianza di spesa complessiva)”.
Le ragioni del “Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri” sono in linea con quelle espresse dall’Anief. Secondo il giovane sindacato, infatti, il vero punto dolente non è il principio dell’autonomia differenziata che è affermato a chiare lettere in Costituzione e che ha una sua logica e un suo perché di esistere nel disegno costituzionale, ma la capacità dell’attuale (e non solo) classe politica di attuarlo senza creare gravi ferite a uno Stato di diritto già abbastanza fragile quale quello italiano. Basti pensare alle critiche fortissime all’attuale assetto del titolo V, parte II della Costituzione, come delineato dalla legge cost. n.3/2001, ritenuto da più parti imperfetto e da modificare.