“Non sono 5 mila le assunzioni di docenti in meno rispetto ai posti vacanti e disponibili, ma almeno dieci volte tanto: la riduzione imposta dal Mef nei giorni scorsi rispetto al contingente richiesto dal dicastero di Viale Trastevere, giustificata dalla riduzione di alunni registrata nell’ultimo biennio a causa della denatalità, è solo l’ultima sforbiciata sulle assunzioni che si dovrebbero realizzare”. Lo spiega Anief in un comunicato stampa.
Il calcolo è presto fatto: “I posti liberi censiti dopo la mobilità, infatti, sono più di 64.000 – scrive Orizzonte Scuola -, per cui nemmeno l’iniziale richiesta di 58.627 avrebbe coperto tutte le cattedre vacanti. In totale, mancano all’appello circa 12.000 posti, che andranno alle assegnazioni provvisorie/utilizzazioni e alle supplenze al 31 agosto”. A questi bisogna aggiungere quelli di quota 100 volutamente non conteggiati e quelli in deroga su sostegno ma che, per effettive esigenze, Anief stima in almeno la metà dei posti assegnati in supplenza in base ai dati statistici relativi all’aumento progressivo di iscrizioni di alunni con handicap certificato e alle richieste delle scuole.
“Sulle immissioni in ruolo della prossima estate c’è poco da ridere: la situazione è peggiore di quello che molti pensano. Perché ci sono altri 50 mila posti che andrebbero aggiunti a questa lista, senza trascurare gli ulteriori posti che si renderanno liberi per effetto del licenziamento dei docenti assunti in ruolo con riserva dalle GaE, dopo le sentenze dell’adunanza Plenaria, nonostante abbiano superato anche l’anno di prova”, spiegano da ANIEF.
IL COMMENTO DI MARCELLO PACIFICO
“L’assurdo di tutta questa situazione – commenta Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief – è che dei 53 mila posti autorizzati per le immissioni in ruolo meno della metà verranno assegnati. Gli altri, andranno a rimpinguare il già altissimo numero di cattedre destinate alle supplenze annuali, che al termine di questa estate raggiungerà la quota record di 200 mila supplenze annuali. Perché le disposizioni che servono non si continuano a fare, ignorando anche la lettera di costituzione in mora per abuso di precariato, recapitata all’Italia solo qualche giorno fa dalla Commissione dell’Unione Europea”.
Utilizzare la mole non indifferente di fondi comunitari, i cosiddetti PON, per creare un programma di contrasto reale alla dispersione scolastica, ferma al 14,5% mentre la stessa UE ci chiede di portarla al 10% entro il prossimo anno: la richiesta è giunta in questi giorni dalla Corte dei Conti, attraverso la relazione su “La lotta alla dispersione scolastica: risorse e azioni intraprese per contrastare il fenomeno”. E la sottolineatura non è sfuggita alla rivista specializzata Orizzonte Scuola, che parla di invito, da parte della Corte, ad utilizzare al meglio i fondi UE.
Contro la dispersione scolastica un “rilevante
ausilio è giunto dai fondi comunitari”. Eppure i risultati non si vedono.
“Nel periodo di programmazione PON 2007-2013 – scrive la Corte dei Conti – il
totale complessivo delle risorse finanziarie utilizzate per la lotta alla
dispersione è stato pari a 309.690.333,10 euro. L’importo programmato per il
periodo 2014/2020 è di euro 345.945.951,00”. La Corte prospetta, quindi,
l’utilità di un piano nazionale programmatico e di un monitoraggio legato a un
costante aggiornamento dell’anagrafe degli studenti insieme a una funzionante
“rete” tra tutte le istituzioni pubbliche (in particolare quelle delle scuole)
con la possibile costituzione di un comitato di esperti con competenze elevate
nelle politiche e nei dispositivi di contrasto alla dispersione.
I NUMERI PARLANO CHIARO
In conclusione, secondo l’organo di rilievo costituzionale, le ingenti somme
che provengono dall’Unione Europea devono servire per combattere con maggiore
efficacia la dispersione scolastica: un fenomeno che in alcune province
dell’Italia del Sud, come confermano pure i più recenti
risultati Invalsi sulle competenze acquisite, continua a mantenere livelli
preoccupanti, addirittura superiori al 40%. Basta ricordare che la Sicilia
fa registrare il record di oltre il 35% dei giovani che non arriveranno a
conseguire la maturità. Pertanto, “vanno utilizzati meglio i fondi Ue”,
sintetizza il Sole
24 Ore.
IL PARERE DEL PRESIDENTE ANIEF
“Se si vuole davvero attuare un cambio di passo – spiega Marcello Pacifico,
presidente nazionale Anief – occorre il supporto anche di esperti esterni, di
psicologi, di assistenti sociali, di una rete territoriale pronta a subentrare
nei momenti più difficili. Altro che regionalizzazione. Inoltre, al livello
generale, quello che potrebbe incidere sicuramente in modo positivo per ridurre
la dispersione scolastica è anche la revisione dei percorsi formativi, con
l’anticipo almeno a 5 anni e l’obbligo portato dagli attuali 16 anni fino alla
maggiore età. Finché tutto questo non si farà – conclude Pacifico –
difficilmente il numero di alunni che lasciano la scuola prima del tempo potrà
ridursi in modo sensibile”.
È stata approvata in via definitiva dal Senato la proposta di legge che
reintroduce l’insegnamento dell’educazione civica, con 33 ore della disciplina
a settimana in tutte le classi a partire dalla primaria e voto in pagella. Il
fatto che la legge non stanzi nuove risorse per la formazione dei docenti è un
dato che pesa molto nel giudizio della norma approvata. Inoltre, rimane il
problema dell’inglobamento della disciplina all’interno di altre, quindi non si
svolgeranno di fatto delle ore in più. Anief, ricevuta in audizione a marzo alla
Camera, aveva segnalato quali erano i punti deboli e quelli da valorizzare, ma
non è stata ascoltata.
LA LEGGE
Tutti gli alunni da sei anni in poi dovranno studiare la Costituzione:
andando avanti nel tempo, si ritroveranno a trattare le istituzioni dello Stato
italiano, dell’Unione europea e degli organismi internazionali; la storia della
bandiera e dell’inno nazionale; l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile;
l’educazione alla cittadinanza digitale; gli elementi fondamentali di diritto,
con particolare riguardo al diritto del lavoro; l’educazione ambientale,
sviluppo eco-sostenibile e tutela del patrimonio ambientale, delle identità,
delle produzioni e delle eccellenze territoriali e agroalimentari; l’educazione
alla legalità e al contrasto delle mafie; l’educazione al rispetto e alla
valorizzazione del patrimonio culturale e dei beni pubblici comuni; la
protezione civile.
A dire il vero, quella approvata è una reintroduzione. Perché l’educazione
civica era stata introdotta nelle scuole nel 1958 per volere di Aldo Moro,
e venne soppressa a partire dall’anno scolastico 1990/1991. Rispetto a quella
materia, però, poiché sono passati decenni, l’insegnamento conterrà nuovi
argomenti, legati anche all’attualità, come il bullismo, il cyber bullismo,
l’educazione alla legalità e stradale. L’ultima nome aveva presso quello di
cittadinanza e costituzione.
A parte i clamori per l’avvenuta approvazione, va ricordato che la legge
impone anche la formazione dei docenti incaricati dell’insegnamento della
disciplina: tuttavia, scrive Il
Sole 24 Ore, “per la loro formazione non vengono stanziati nuovi fondi ma
saranno utilizzati 4 milioni di euro del fondo previsto dal Piano nazionale di
formazione e per la realizzazione delle attività formative introdotto nel 2015
con la legge n. 107”.
I LIMITI DELLA LEGGE E LE PROPOSTE DI ANIEF
Per Anief il provvedimento introdotto rappresenta solo un minimo segno di
apertura del Governo verso il problema. Ma deve essere fatto molto di più:
tutti i limiti del disegno di legge n. 1264, da poche ore approvato in via
definitiva, sono stati già esplicitati da Anief nel corso di un’audizione
presso la Commissione Cultura della Camera lo
scorso 12 marzo. In quell’occasione, il sindacato chiese l’istituzione della
disciplina come materia autonoma, quindi aggiuntiva alle attuali, con un minimo
annuale di non meno di 33 ore per la scuola primaria e 66 ore per la
secondaria.
Per la scuola primaria e secondaria di primo grado, la disciplina si sarebbe
dovuta impartire dai docenti dell’area storico-geografica, che per la scuola
secondaria di secondo grado avrebbero dovuto possedere una preparazione
specifica dei docenti di insegnamento giuridico-economico; Anief avrebbe voluto
estendere l’oggetto degli studi alle istituzioni europee: a livello europeo, ha
ricordato il sindacato, esiste una Raccomandazione del Parlamento europeo e del
Consiglio del 18 dicembre 2006 (2006/962/CE), relativa alle competenze chiave
per l’apprendimento permanente, delinea 8 competenze chiave, tra cui le
Competenze sociali e civiche.
Sempre il 12 marzo, il presidente nazionale Anief aveva ricordato che “non si possono formare cittadini consapevoli e responsabili se non in una prospettiva più ampia che vada oltre i confini nazionali e conduca verso una coscienza eurounitaria”.
Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief, afferma che “ancora una volta si vuole fare una riforma a costo zero, con la sottrazione di altre ore d’insegnamento per fare spazio all’educazione civica senza darle la dignità di materia con un coordinatore non definito che la dice lunga su quanto si tenga alla qualità dell’insegnamento. Per non parlare dell’improvvisazione con la quale i colleghi dei docenti si ritroveranno ad inizio settembre a dovere decidere a chi affidare le 33 ore di lezione annue, magari a personale presente nell’organico dell’autonomia che non ha alcuna cognizione di quello che dovrà insegnare. Ma chi deciderà chi insegna è il vero dilemma”.
Arriva il sì del Mef alle immissioni in ruolo dei docenti, ma con l’imprevista riduzione di 5 mila posti: dal dicastero di via XX Settembre si giustifica tale operazione con “la marcata riduzione delle iscrizioni degli alunni, registrata specie nell’ultimo biennio, connessa con il calo della natalità”. Sono diversi gli aspetti da considerare su questa decisione: il primo è che, incredibilmente, al ministero dell’Istruzione non hanno avuto nulla da eccepire sul taglio di assunzioni, probabilmente consci del fatto che, in definitiva, cambierà ben poco ai fini delle effettive assunzioni a tempo indeterminato, le quali saranno molte meno delle cattedre autorizzate. Esattamente come accaduto un anno fa, si prevede che a due convocazioni su tre non si presenterà alcun docente, perché sono sempre più le graduatorie di merito e le GaE prive di candidati: Anief lo ha scritto due mesi al Miur, ma al ministero guidato da Marco Bussetti hanno fatto orecchie da mercante, continuando a dire che la situazione si risolverà con i concorsi ordinari e straordinari in via di approvazione: una teoria che fa acqua da tutte le parti, ma che anche oggi il ministro dell’Istruzione ha tenuto a ribadire.
A Viale Trastevere si continua a giocare sulle teste dei docenti: i
dirigenti Miur sanno infatti molto bene che i vincitori di concorsi annunciati,
tre su quattro ancora da bandire, saranno individuati non prima di un anno e
forse nemmeno si farà in tempo ad assumerli per il 1° settembre 2020. Inoltre,
in molti casi il problema non è quello della mancanza di aspiranti, ma della
natura dei posti vacanti.
“Delle almeno 170 mila supplenze annuali che si andranno a ratificare
quest’anno, comprendenti anche gli oltre 20 mila Quota 100 non assegnati ai
ruoli – spiega Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief –, possiamo dire
che più dell’80 per cento sono posti liberi, senza nessun insegnante titolare
impegnato in altri ruoli, quindi dovrebbero essere collocate in organico di
diritto. Invece, il Miur continua a considerarle in organico di fatto, non
tentando più nemmeno di chiedere i finanziamenti necessari allo stesso Mef per
attuare il passaggio in quello di diritto: quindi, produrre nuove graduatorie
di vincitori di concorso non servirà a nulla se poi ci sono delle province,
come Palermo, dove occorrono 60
anni per immettere in ruolo solo i vincitori degli ultimi concorsi. Le cose
stanno così, tanto è vero che lo stesso ministero dell’Istruzione è costretto a
confermare
di anno in anno la proroga della cancellazione”.
“Ma l’aspetto più paradossale di questo modello di reclutamento – continua
Pacifico – è che una fetta di cattedre, che verranno assegnate ai precari,
saranno affidate a docenti non abilitati e senza esperienza: ai dirigenti
scolastici, infatti, dopo avere attinto dalle graduatorie d’istituto di seconda
e terza fascia, non rimarrà altro, ad anno scolastico abbondantemente iniziato,
che rivolgersi agli aspiranti docenti che hanno presentato loro un semplice
foglio di ‘messa a disposizione’. Questo accade perché gli abilitati e precari
di terza fascia non troveranno spazio, in quanto costretti a presentare la loro
candidatura in un numero definito di istituti, al massimo 20. A quel punto, il
danno sarà compiuto: con tanti docenti già formati ed esperti lasciati a casa,
mentre diverse migliaia di neo laureati e alle prime armi verranno messi in
cattedra”.
Inoltre, Anief rileva che il Miur continua ad operare come se non fosse mai stata recapitata all’Italia la lettera di costituzione in mora, da parte della Commissione dell’Unione Europea, perché nel Belpaese “i lavoratori del settore pubblico non sono tutelati contro l’utilizzo abusivo della successione di contratti a tempo determinato e la discriminazione come previsto dalle norme dell’UE (direttiva 1999/70/CE del Consiglio)”. Alla lettera lo Stato italiano dovrà rispondere con atti concreti: “Fare finta di nulla su quasi 200 mila assunzioni a tempo determinato e mettere in evidenza che si sono attuate poco più di 20 mila immissioni in ruolo, tante ne prevediamo, è una politica suicida, che a nostro avviso porterà dritti l’Italia verso la condanna definitiva per abuso di precariato, con tutto ciò che ne consegue”, conclude Pacifico.
Con la fine di luglio prende avvia la stagione delle supplenze. Secondo
l’Anief, fa scalpore che l’esplosione del precariato scolastico si venga a
determinare negli stessi giorni in cui il nostro Stato dovrà preparare una
risposta valida alla lettera di costituzione in mora all’Italia, prodotta
dalla Commissione dell’Unione Europea, perché dalle indagini svolte da
Bruxelles risulta che nel nostro Paese “i lavoratori del settore pubblico non
sono tutelati contro l’utilizzo abusivo della successione di contratti a tempo
determinato e la discriminazione come previsto dalle norme dell’UE (direttiva
1999/70/CE del Consiglio)”. E per dire basta a questo fenomeno non serve
attivare altre selezioni o replicare
i concorsi riservati, come invece sta facendo il Miur.
“La dimostrazione dell’inefficacia di questa logica – spiega Marcello
Pacifico, presidente nazionale Anief – sta tutta nei decenni di attesa, anche 60
anni che in più di una regione serviranno per smaltire le attuali
graduatorie vigenti e utili per le immissioni in ruolo. Sono talmente tanti i
vincitori, oltre mille solo in Campania nella scuola dell’infanzia e primaria,
che il Governo è costretto a reiterarne
di anno in anno la cancellazione”.
“Lo ripetiamo ancora una volta. Per dare una svolta alla supplentite, bisogna approvare un decreto urgente utile a cambiare da subito le condizioni per permettere la stabilizzazione a chi è già stato individuato: trasformare i posti in deroga, ad iniziare dal sostegno, in cattedre vere; riaprire le GaE e il doppio canale reale di reclutamento, con possibilità di attingere dalla seconda fascia d’istituto; assumere tutti gli idonei dei concorsi, anche in altre regioni rispetto a quella dove hanno partecipato. Altre strade non fanno che allungare l’agonia delle supplenze a tempo indeterminato ed esacerbare la battaglia in tribunale, come accaduto con le 50 mila maestre con diploma magistrale, rispetto alla cui situazione – conclude il sindacalista – Anief si sente tutt’altro che vinta”.
Il servizio a tempo indeterminato deve essere considerato utile ai fini del punteggio, questo quanto stabilito dal TAR Lazio con la nuova sentenza di pieno accoglimento ottenuta dai legali Anief. Confermato il diritto dei docenti con servizio a tempo indeterminato alla valutazione dello stesso ai fini del punteggio nelle graduatorie di merito regionali del concorso “riservato” 2018 per la scuola secondaria di I e II grado.
Il TAR Lazio, infatti, conferma quanto da sempre sostenuto dal nostro
sindacato e accoglie il ricorso patrocinato dai legali Anief Fabio Ganci e
Walter Miceli evidenziando come le disposizioni impugnate “devono essere
interpretate in modo costituzionalmente orientato e alla luce delle ulteriori
disposizioni normative contenute nell’articolo 400 commi 1, 14 e 15 del decreto
legislativo 297/1994, con cui si prevede la valutazione del servizio
d’insegnamento prestato, senza che sia escluso espressamente quello svolto a
tempo indeterminato”. La sentenza, dunque, riprendendo il precedente
giurisprudenziale già ottenuto in Corte Costituzionale proprio dai legali Anief
sull’illegittimità della Legge 107/2015 nella parte in cui voleva escludere i
docenti di ruolo dalla possibilità di partecipare ai concorsi per la scuola
pubblica, ha accolto senza riserva il ricorso Anief “con l’ordine
all’amministrazione di attribuire ai ricorrenti il corretto punteggio
spettante” e condannando il Miur al pagamento di 3mila euro di spese di
soccombenza.
Il Ministero dell’istruzione, ora, dovrà procedere alla corretta
attribuzione del punteggio spettante ai ricorrenti Anief senza operare alcuna
distinzione tra servizio svolto con contratti a tempo determinato o
indeterminato. “Siamo soddisfatti – commenta Marcello Pacifico, presidente
nazionale Anief – non avevamo dubbi sulla fondatezza delle nostre ragioni e
siamo già pronti a proporre ulteriori azioni legali contro la tabella titoli
dei prossimi concorsi ordinari in cui l’Amministrazione ritiene addirittura di
non dover attribuire alcun punteggio al servizio pregresso svolto dai
candidati. Per un concorso utile ai fini dell’immissione in ruolo nella scuola
pubblica tale determinazione è paradossale e ci muoveremo in tutte le sedi
opportune per sanare quest’ulteriore stortura perpetrata a discapito dei
lavoratori della scuola”. I ricorrenti Anief, nei prossimi giorni, riceveranno
specifiche istruzioni per rivendicare il diritto al punteggio spettante per i
servizi svolti a tempo indeterminato e non valutati nella procedura concorsuale
“straordinaria” utile per l’inserimento nelle graduatorie regionali degli
abilitati della scuola secondaria di I e II grado.
La Corte di Cassazione ha ritenuto non esistente l’abuso di potere giurisdizionale da parte dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato: di fatto, la Cassazione non ha detto che le conclusioni del CdS siano corrette e condivisibili, ma ha ritenuto che la sentenza del più alto Consesso della Giustizia amministrativa, essendo frutto di una mera interpretazione delle norme giuridiche, non determini un abuso del potere giurisdizionale. La compensazione delle spese di lite e il riconoscimento della complessità delle questioni giuridiche trattate, peraltro, lasciano supporre che la decisione della Cassazione sia stata in bilico fino all’ultimo momento.
L’Anief, unico sindacato che da sempre si è schierato al fianco di questa particolare categoria di docenti abilitati e da sempre chiede a gran voce la riapertura delle GaE, le graduatorie ad esaurimento, per sanare questa e altre illegittimità compiute a discapito dei tanti docenti abilitati esclusi dall’accesso al “doppio canale” di reclutamento, non si dà per vinta e conferma l’intenzione di procedere presso i competenti Tribunali del Lavoro per impugnare ogni singolo licenziamento che dovesse intervenire nei confronti dei docenti immessi in ruolo “con riserva” che hanno superato l’anno di prova.
L’ORDINANZA DELLA CASSAZIONE
Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione hanno respinto il ricorso
del gruppo di maestri diplomati fino al 2002, confermando la sentenza del
Consiglio di Stato, che a fine 2017 ha escluso dalle graduatorie a esaurimento
per le scuole materne ed elementari gli insegnanti in possesso del solo diploma
magistrale che non avessero partecipato alle sessioni di abilitazione o ai
concorsi. Secondo la
suprema Corte, la decisione “rimane entro l’ambito di interpretazione
e ricostruzione di una complessa normativa”.
COSA FARÀ ORA ANIEF
Il sindacato Anief, che prima e più di tutti, si è opposto all’estromissione
dei maestri con diploma magistrale dalle GaE e degli oltre 7 mila docenti di
fatto licenziati dopo essere stati immessi in ruolo, non si fermerà certo qui.
Impugnerà, uno per uno, tutti i provvedimenti di licenziamento che il Miur
dovesse attuare nei confronti proprio dei docenti immessi in ruolo “con
riserva” e che hanno svolto l’anno di straordinariato con esito positivo.
Anief, inoltre, mentre attende entro il 2020 l’esito del reclamo collettivo
già presentato al Consiglio d’Europa e dichiarato
ammissibile da un anno, chiederà ai giudici amministrativi di sollevare
il caso dei diplomati magistrale di fronte alla Corte di Giustizia Europea,
così come è già avvenuto con la
sentenza “Mascolo” che nel 2014 ha condannato l’Italia per abusiva
reiterazione dei contratti a termine.
Entro il mese di settembre, infine, il sindacato, appena inserito nell’alveo
dei rappresentativi
e titolati a sedere ai tavoli della contrattazione nazionale, valuterà la
possibilità di presentare una class action per risarcire i docenti dai
danni prodotti nei loro confronti e far dichiarare la responsabilità risarcitoria
dello Stato italiano, colpevole di aver ingannato per anni i docenti con
diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002 negando la validità
abilitante del loro titolo.
IL COMMENTO DEL PRESIDENTE NAZIONALE
“Non ci fermeremo – ha detto Marcello Pacifico, presidente
nazionale Anief – siamo abituati a lottare fino alla fine. La nostra
azione di tutela non si esaurisce qui e agiremo su più fronti. Riteniamo
vergognoso l’accanimento nei confronti di tanti docenti colpevoli solo di
essere stati ingannati per anni dallo Stato italiano che ora continua a
sfruttare la loro professionalità nelle scuole per assicurare il corretto
svolgimento delle attività didattiche”.
“Invitiamo sin da ora tutti i docenti con diploma magistrale e tutti gli
abilitati ingiustamente esclusi dall’accesso alle graduatorie ad esaurimento ad
intraprendere azioni risarcitorie contro lo Stato italiano per l’abusiva
reiterazione dei contratti a tempo determinato”, conclude il sindacalista
autonomo.
Sull’autonomia differenziata la Lega ha scommesso tantissimo. Trascurando anche il fatto che i suoi ministri, per rispettare il ruolo che ricoprono e il giuramento fatto davanti al Capo dello Stato, a difesa di tutti gli italiani, non possono uscire più di tanto allo scoperto. Costretto a mettere in atto una sottile operazione di diplomazia, anche il ministro dell’Istruzione sta operando in questa direzione: nelle ultime ore, infatti, ha affermato che graduatorie e scuola non saranno regionalizzate, cercando in questo modo di spegnere gli animi dei tanti elettori degli attuali partiti di governo, giustamente indignati per la veemenza con cui i rappresentanti del Carroccio stanno cercando di imporre la regionalizzazione a Palazzo Chigi, con l’intenzione di bissare il comportamento anche alle Camere, qualora il disegno di legge fosse approvato dal governo.
LE AFFERMAZIONI DEL PRESIDENTE DELLA LOMBARDIA
Le affermazioni di circostanza di Marco Bussetti hanno però lasciato
scontento il governatore della Lombardia: intervenuto subito dopo il ministro,
ha scritto Orizzonte
Scuola, secondo il presidente della regione Bussetti si è dimostrato
“ancora meno realista del re”, ha detto il governatore, citando una sentenza
della Corte Costituzionale, la 13 del 2004, la quale afferma che “il compito di
organizzare la scuola può essere demandato alle Regioni, così come succede per
la sanità”. Quindi, “le graduatorie regionali le facciamo lo stesso” ha detto
ancora Fontana. “È un falso problema, in consiglio regionale sia il PD che i 5
Stelle hanno votato per l’autonomia, mi sembrano tutti un po’ confusi”. Poi ha
concluso “è come per la sanità, spero lo capiscano o invocherò la sentenza, che
vale per tutte le Regioni”.
LA POSIZIONE DELL’ANIEF
Secondo Anief in confusione è invece chi ha chiesto di trasformare la scuola
pubblica italiana in un servizio da gestire a livello locale. E se i Comuni
riescono a farlo ben venga. In caso contrario, certe regioni si arrangino pure.
Perché nelle intenzioni di Lombardia e Veneto, spetta alle regioni prendere una
serie di decisioni, accollandosi anche gli oneri finanziari e organizzativi:
bandire concorsi e trasformare i docenti in impiegati regionali; aumentare i
fondi per le scuole con risorse regionali; diminuire il numero di alunni per
classe; regionalizzare gli USR; integrare gli stipendi dei docenti regionali
con fondi della Regione, gestire anche la mobilità dei docenti, con la
possibilità di aumentare gli anni di permanenza a più di 5 dopo l’assunzione in
Regione.
LA CONSULTA HA DETTO ‘NO’ PIÙ VOLTE
Proposta di legge che, secondo alcune indiscrezioni, oltre a destare molte
perplessità in diversi parlamentari, ha visto in questi giorni non a caso una
diminuzione da 16 a 4 punti di gestione dell’autonomia scolastica. E chi lo ha
fatto, a differenza del governatore della Lombardia, ha avuto i suoi motivi.
Probabilmente, a differenza del governatore Fontana, ha letto a fondo i
tentativi passati andati tutti sistematicamente a vuoto sulle proposte di
regionalizzazione in
Trentino, peraltro dopo le sentenze della Consulta n. 107/2018 (sulla L.
Regione Veneto) e la n. 6/2017 e 242/2011 sulla Legge Trento 5/2006, anch’esse
tutte negative.
Secondo l’Invalsi, i dati di quest’anno non lasciano spazi a dubbi: all’ultimo anno delle superiori, l’insufficienza grave nelle prove di italiano è quasi fisiologica al di sotto del 10 per cento e quelle del Sud dove sfiora il 20 per cento in Puglia e Molise e supera il 25 in Calabria. Ne consegue che in Italiano gli alunni che hanno i punteggi più alti sono collocati tra il 15 e il 20 per cento nelle regioni settentrionali e sotto il 10 per cento nel Meridione. Sempre alle superiori, per quanto riguarda la matematica, in Calabria, Campania e Sicilia il 60 per cento dei ragazzi non ha raggiunto le competenze minime richieste dai programmi. Al contrario di regioni come la Lombardia, il Veneto, l’Emilia Romagna e il Friuli Venezia Giulia, dove il 75 per cento ha raggiunto gli obiettivi prefissati. Ed è un problema che già si evidenzia, seppure con livelli meno marcati, già dalla quinta primaria.
Anche i test riempiti dai maturandi, per la prima volta, hanno evidenziato le risultanze prodotte dagli studenti di terza media: soltanto due studenti su tre posseggono, al termine del ciclo di studi e in procinto di svolgere gli esami di fine corso, le competenze di base richieste dai programmi. Si tratta del 65,6 % alla scuola media e il 65,4 % in quinta superiore per quanto riguarda l’italiano. Ancora peggio va per la matematica, spiega il Corriere della Sera: se in terza media tre ragazzi su 5 (61,33 per cento) hanno appreso in maniera sufficiente o di più il programma, alla fine delle scuole superiori sono solo il 58,3 per cento quelli che si possono considerare «promossi». Una situazione incredibile che diventa drammatica in Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna dove addirittura la situazione è rovesciata: il 60 per cento degli studenti non è sufficiente. Non va meglio per lo studio dell’inglese: per quanto riguarda la comprensione orale solo uno studente su tre riesce a raggiungere il livello richiesto.
Secondo Roberto Ricci direttore dell’Invalsi, “molto dipende dal contesto e dalla situazione socioeconomica familiare. In alcune aree l’impreparazione è tale che è come se un terzo degli studenti non avesse frequentato la scuola: alla fine delle superiori ha conoscenze e competenze della terza media”.
Anief ha affrontato questo tema più volte. Proponendo più soluzioni: organici maggiorati, naturalmente maggiori investimenti, ma anche l’anticipo dell’obbligo formativo, almeno a cinque anni di età, con contestuale obbligo formativo a 18 anni. Di recente, il sindacato ha anche messo in risalto i risultati delCountry Report sull’Italia elaborato dalla Commissione europea, dal quale è emerso che nonostante i recenti miglioramenti nella qualità dell’istruzione scolastica, le ampie e persistenti disparità regionali nei risultati dell’apprendimento continuano a destare grande preoccupazione.In quel report si evidenziava un aspetto di cui oggi ha parlato lo stesso Invalsi: “al Sud, le differenze significative nei risultati tra e all’interno delle scuole potrebbero indicare una tendenza a raggruppare gli studenti in base alla loro capacità”, magari creando pure delle classi ‘pollaio’.
“Se gli studi nazionali insistono su questa tendenza – commenta Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief – significa che si tratta di un dato su cui occorre soffermarsi. Perché se è vero che le scuole sono sempre più portate a realizzare le classi per livelli di competenze degli alunni, significa che gli istituti si sentono costretti a prendere delle contromisure all’inerzia di chi le governa: poiché non arrivano in quelle scuole delle risorse aggiuntive, non solo finanziarie, come ha fatto notare di recente la Corte dei Conti, ma anche umane; ovvero servono organici maggiorati e potenziamenti corposi, allora sono obbligati a crearsi degli ‘anticorpi’ interni. I quali, però, vanno paradossalmente a penalizzare gli alunni più deboli, i quali collocati in un contesto di basso livello, a livello territoriale e a volte pure familiare, non hanno quello stimolo positivo derivante dall’integrazione random con alunni dai tratti poliedrici e diversificati”.
“Laddove è presente un’alta percentuale di studenti in difficoltà, un numero superiore alla media di disabili e stranieri, occorrono invece misure straordinarie: anche perché è un dato inconfutabile che molti di questi allievi si disperdono senza arrivare nemmeno al diploma di maturità. Quindi il quadro è peggiore di quello che ha oggi evidenziato l’Invalsi. Stiamo producendo sempre più un sistema di formazione rivolto ad una minoranza, negando gli articoli 33 e 34 della Costituzione, che danno garanzia di istruzione a tutti i cittadini, senza alcuna distinzione”, conclude Pacifico.
Uno studente su tre che inizia le superiori non prenderà mai il diploma di maturità. Sono numeri impietosi quelli sulla dispersione scolastica: “almeno 130 mila adolescenti che iniziano le superiori – dice Tuttoscuola – non arriveranno al diploma. Irrobustiranno la statistica dei 2 italiani su 5 che non hanno un titolo di studio superiore alla licenza media e di un giovane su 4 che non studia e non lavora. Come se non bastasse, tra chi si diploma e si iscrive all’università, uno su due non ce la fa. Complessivamente su 100 iscritti alle superiori solo 18 si laureano. E poi un quarto dei laureati va a lavorare all’estero. E tra i diplomati e laureati che restano, ben il 38% non trova un lavoro corrispondente al livello degli studi che hanno fatto. Un disastro”.
Di buono
c’è che negli ultimi anni, il tasso di abbandono scolastico è diminuito:
tra il 2013 e il 2018 hanno detto addio in anticipo ai professori 151mila
ragazzi, il 24,7 per cento del totale, contro il 36,7 del 1996-2000.
Sicuramente risultati incoraggianti, ma ancora insufficienti, che non
fermano la dispersione scolastica. Perché, continua la rivista, spesso chi
abbandona i libri così precocemente finisce nel buco nero dei Neet, quei
giovani che non studiano e non lavorano di cui fa parte un ventenne su tre del
Mezzogiorno.
Ma perché
lasciare la scuola prima ha un costo sociale: Tuttoscuola fa degli esempi
significativi, ricordando che “la disoccupazione tra chi ha solo la licenza
media è quasi doppia rispetto a chi è arrivato al diploma e quasi il quadruplo
di chi è laureato; l’istruzione incide sulla salute, riducendo i costi per la
sanità; comporta meno criminalità e meno costi per la sicurezza”. Ne consegue
che “prevenire la dispersione scolastica avrebbe costi molto più bassi di
quelli che derivano dalla necessità di gestirne le conseguenze sociali.
Servirebbe un grande piano pluriennale. Eppure l’attenzione oggi va molto di
più al milione di migranti sbarcati negli ultimi vent’anni che ai tre milioni e
mezzo di adolescenti italiani che nello stesso arco di tempo hanno abbandonato
la scuola, rendendo più povero, dal punto di vista educativo e non solo, il
Paese”.
Su questa
piaga, tutta italiana, Anief ricorda che pesa molto la riduzione del tempo
scuola, avviata con la Legge 133 del 2008. E al decremento di ore settimanali
si aggiunge la mancata adozione del tempo pieno, che nel 2017/18 riguardava
solo 6.361 scuole primarie, il 42,3% delle 15.038 funzionanti, con un
incremento di appena 47 nuovi istituti rispetto all’anno precedente. Con il Sud
a preoccupare ulteriormente, visto che la percentuale media è al di sotto del
10%.
Negli
ultimi anni Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief, ha affrontato più
volte il problema, anche in audizione presso le commissioni parlamentari di
competenza. Il sindacalista ricorda l’importanza, ai fini della trasmissione
del valore della formazione, degli “agenti culturali che operano nei territori,
del sostegno sociale da assicurare ai giovani che presentano difficoltà e
spesso provenienti da famiglie non in grado di sostenerli. È inoltre
indispensabile – prosegue Pacifico – introdurre degli organici in tutte le zone
a rischio, facenti registrare un alto tasso dispersivo e di stranieri,
immettendo in ruolo i tanti precari abilitati esclusi dalle GaE benché già
selezionati, formati, abilitati e vincitori di concorso”.
Sinora,
però, anche l’attuale Governo non sembra andare in questa direzione: basta dire
che nel Documento
di Economia e Finanza 2019, sottoscritto ad
aprile dal Governo Conte, a pagina 31 si conferma solo quanto già previsto
dalla Legge di Bilancio approvata a fine 2018: “il
rinnovo contrattuale per il triennio 2019-2021 prevede, in base alle risorse
stanziate dalla legge di Bilancio per il 2019, incrementi dell’1,3 per
cento per il 2019, dell’1,65 per cento per il 2020 e dell’1,95 per cento
complessivo a decorrere dal 2021”, prevedendo quindi aumenti ben lontani dall’8% di inflazione
che oggi sovrasta le buste paga di docenti e Ata.
In generale, sempre il Def 2019 ci dice che l’investimento
per la scuola passerà, a causa del tasso di denatalità, dal 3,9% del 2010 al
3,1% del 2040. Ma la riduzione non è generalizzata, perché, nello stesso
periodo, la spesa socio-assistenziale e sanitaria si indica in crescita,
passando rispettivamente dall’1,0% all’1,3% e dal 7,1% al 7,6%. Si prevede,
quindi, una riduzione di spesa legata agli organici del personale, proprio a
seguito della riduzione delle nascite e quindi del numero di alunni: dando però
in questo caso per scontato che non andrà a cancellare le tanti classi “pollaio”, quelle che invece il M5S, con un apposito disegno di legge,
ha detto di volere debellare.
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